Viaggio nell'Italia insolita e misteriosa.
Orsanti, scimmiari, cammellanti: storie di vite avventurose degli abitanti delle zone appenniniche tosco-emiliane
di Ivano Barbiero
Ventitreesima tappa del nostro viaggiatore che dalla Toscana, da Siena, valica l'Appennino per spostarsi in Emilia, dove l'attendono nuove storie ricche di mistero[1]. Dietro l'angolo, si fa per dire, c'è il castello di Vigoleno, nel Piacentino, che racconta le peripezie degli Orsanti, migranti coraggiosi, che tra il Settecento e l'Ottocento, e fino alle metà del Novecento, si muovevano in giro per l'Europa proponendo spettacoli in cui esibivano animali ammaestrati.
Quando la gente si muove per fame, alla ricerca di una vita migliore, non sa mai dove potrà arrivare e che cosa si potrà inventare per sopravvivere. Storie attuali di oggi, ma soprattutto di ieri, raccolte in quest’ultimo caso nel suggestivo castello di Vigoleno, nel Piacentino. Qui, in quattro stanze, sono raccolte le testimonianze di vita degli Orsanti, una moltitudine di uomini coraggiosi che abitavano l’appennino tosco-emiliano e che per sbarcare il lunario, ma anche per spirito d’avventura, tra il Settecento e gli inizi del Novecento, a piedi, di paese in paese, arrivarono in Francia, Gran Bretagna, Germania, nell’impero austro-ungarico, in Scandinavia, nell’Est europeo, in Russia, Turchia, Medio Oriente, Spagna, sulle coste settentrionali d’Africa. Erano artisti girovaghi, musicanti, ma anche truffatori se si può usare questo termine.
Antesignani degli artisti circensi
La maggior parte però erano ammaestratori di animali: pecore, capre, pappagalli, scimmie, cani, orsi, cammelli e tutto quello che poteva suscitare l’attenzione e l’ilarità del pubblico. In parole povere erano gli antesignani degli attuali artisti di circo che con le loro semplici arti hanno portato in giro per il mondo, nelle vie e nelle piazze di paesi e città i loro spettacoli di strada.
Partiti in larga parte da Compiano, nel Parmense, dalle Valli del Taro, del Ceno e da Vernasca, Morfasso e Lugagnano, questi personaggi per certi versi mitici hanno vissuto quasi sempre vite avventurose, errando per terre lontane e rientrando nei loro paesi di origine ogni tre o quattro anni oppure mai, dimenticandosi in questo caso di avere avuto una moglie o dei figli. Non si tratta di invenzioni narrative: l’emigrazione girovaga è stato un fenomeno reale quanto affascinante e con radici remote. Accattonaggio, commercio ambulante, lavori campestri e forestali, filatura, spettacoli musicali improvvisati o con animali - appunto di Orsanti, di Scimmmiari o Cammellanti - sono state alcune delle attività con cui gli abitanti di queste zone appenniniche, hanno cercato di sfuggire anche alla miseria imperante e a terre aspre e scoscese che avevano ben poco da offrire.
Difficilmente le compagnie seguivano gli stessi percorsi con regolarità, ma si incontravano in occasione di fiere in grandi città europee. Durante questi incontri si scambiavano informazioni sui familiari rimasti al paese d’origine e si trattava lo scambio o la vendita degli animali. Tutte queste professioni sono cessate all’inizio del ‘900 per le nuove leggi molto severe contro lo sfruttamento dei minori (che a volte venivano volutamente storpiati dai loro “padroni” per suscitare ulteriore pietà nel pubblico) e per l’avvento di nuove professioni ambulanti più redditizie e sicure, soprattutto all’estero.
D’altronde le compagnie avevano imparato a mantenersi non solamente con le esibizioni in strada, altri commedianti, a volte, occasionalmente, vendevano anche bottoni, saponette, polvere d’inchiostro, pettini, immaginette sacre. Svolgevano anche il mestiere dei merciai.
Nel registro parrocchiale di Illica, frazione di Bedonia, si può leggere con data luglio 1797: “Si fa menzione che Giovanni di Domenico Draghi e Vincenzo del fu Domenico Draghi, essendo stati due anni nella Germania con un orso e una scimmia e venuti sani e salvi a casa sua, regalano alla Beata Vergine del Carmine un cuore d’argento che questo sia appeso in perpetuo al collo della statua di essa Beata Vergine e che non sia venduto e incantato”.
Le fortune di Antonio Bernabò
Qualcuno di loro ha però fatto fortuna ed è riuscito ad aprire col tempo dei circhi di tutto rispetto; altri hanno continuato ad arrabattarsi e in seguito hanno aperto altre attività che sembravano più remunerative e redditizie: venditori di gelati, bibite, panini, caldarroste, pesce e patatine fritte, chincaglierie, bottoni. I più famosi delle zone di Bedonia, nel Parmense, furono le famiglie Cappellini, Volpi, Chiappari e Bernabò. Antonio Cappellini, attivo in Spagna, cessò la sua attività alla fine dell’Ottocento, mentre Giovanni Volpi, attivo in Inghilterra, liquidò il proprio circo prima del 1910.
Un altro circo noto era quello di proprietà di Chiappari a tutti noto con il soprannome di Ballotta (Castagna cotta). Più importante di tutte fu probabilmente l’attività della famiglia Bernabò, dapprima con Paolo di Giuseppe e soprattutto con il cavalier Antonio, detto Bin, girarono mezza Europa, da Atene alla Spagna, dalla Tunisia all’Algeria. Nel 1844, Paolo di Giuseppe partecipò alle celebrazioni per la Costituzione greca.
Il massimo però fu raggiunto da Antonio Bernabò che arrivò a possedere un circo con 80 animali e 50 dipendenti compresi acrobati e ballerine. Sul finire dell’Ottocento proponeva i suoi spettacoli in tutta Europa, in special modo nei Balcani e in Russia meridionale, compreso a Mosca ospite degli Zar. A Costantinopoli dette uno spettacolo stupendo alla corte del Sultano e costui ne fu talmente entusiasta che gli comprò tutto il circo nominandolo anche Cavaliere. Con i soldi ricavati dalla vendita Antonio comprò un circo ancora più grande continuando a dare spettacoli finché la guerra lo sorprese a Sarajevo. Fu così costretto a vendere tutto e a tornare in Patria. Fu quella la fine del fenomeno dell’emigrazione girovaga, per lui come per tanti altri, proprietari di circhi. Tanti sospesero le loro attività convinti di riprendersi in seguito, ma oltre alla guerra l’avvento del Cinema, come nuova forma di spettacolo e intrattenimento, diede un altro colpo fatale a questo mestiere.
I ricordi ci sono tutti in questo museo dei tempi lontani, testimonianze fiabesche e quasi oniriche, raccolte e catalogate con cura meticolosa: costumi di scena, dipinti, documenti, stampe d’epoca narrano le gesta e le peripezie di tanti uomini che erano diventati gioco forza artisti di strada.
Osservando i vari oggetti, esposti sugli scaffali o appesi ai muri la sensazione che si prova è stranissima: sembra che il tempo tutt’intorno si sia fermato mentre il silenzio, domina in tutte le stanze che custodiscono i cimeli di rappresentazioni che dovevano essere per forza rumorose e chiassose. Poco conta che ad accogliere i visitatori all’ingresso ci siano un orso e due scimmiette impagliate, oltre a una moltitudine di strumenti musicali: organetti di Barberia, trombette, chitarre, sonagli, pianole, campanelli, ghironde, campanelli, fischietti, fisarmoniche, grancasse con annessi piatti e triangoli. Pare infatti che ogni singolo oggetto o animale racconti una storia fatta più che altro di sofferenze, fatiche, incertezze e privazioni.
Le città ricche e popolose, le piazze, le sagre e le feste erano le mete preferite dai girovaghi, fossero birbanti, commedianti, burattinai o altro che spesso vi giungevano in massa da ogni dove allestendo i loro spettacoli di acrobati, saltimbanchi, cantanti, suonatori e ammaestratori di animali. Arrivati in un luogo di transito delle persone, i commedianti allestivano il proprio palco per lo spettacolo. Scimmie, pappagalli, cani, pecore e capre (alcune agilissime nel saltare a quattro zampe sul collo di una damigiana) erano gli animali che si potevano reperire e addestrare con una certa facilità, mentre i cammelli, acquistati in Crimea o in Africa, e gli orsi erano i pezzi forti degli spettacoli di questi commedianti che molte volte venivano definiti ciarlatani. Il cammello perché permetteva di raccogliere ulteriori soldi portando gli spettatori in giro per il paese e l’orso in particolare che poteva raggiungere anche i 350 chili di peso e una volta alzato sulle due zampe posteriori i due metri di altezza.
L'addestramento dei plantigradi
L’orso pur essendo un animale feroce, era onnivoro, poteva anche non mangiare carne, un fatto che dal punto di vista del mantenimento non incideva molto; inoltre passava alcuni mesi in letargo. Chi li addestrava, ed erano in pochissimi a saperlo fare, li teneva rinchiusi in una casa di pietra e li istruiva per un anno intero. Nel bedoniese esistono ancora le “ca’ de l’ors” dove i plantigradi venivano ricoverati.
L’animale, preso solitamente da piccolo, veniva addestrato con metodi quasi sempre rudi: utilizzando delle fruste o mettendogli delle piastre roventi sotto le zampe. Gli si metteva poi una museruola di ferro e un collare al collo per farlo ballare, girare, saltellare, ma il numero più atteso era la lotta contro il domatore. Si trattava di una messinscena, anche perché una zampata del plantigrado avrebbe potuto uccidere l’uomo in un attimo.
Era uno spettacolo comunque pericoloso perché bisognava anche tenere conto dell’imprevedibilità data dal carattere della bestia, poiché non dava preventivamente a vedere le sue intenzioni anche se infuriato. Difficile, poi, che si affezionasse ai componenti delle compagnie, visto anche il continuo scambio di proprietà e animali. Se tutto procedeva senza intoppi e secondo i canoni dell’esibizione, il finale vedeva l’orso battuto, sdraiato per terra, come fosse morto e trascinato per le zampe fuori dal luogo dove si era appena svolta la competizione; salvo riprendersi subito dopo appena sfuggito agli sguardi del pubblico e rientrare in scena per raccogliere gli applausi. Si trattava specialmente di orsi bruni; in Emilia-Romagna e in Liguria l’animale continuò ad essere presente per un certo periodo, visto che ancora agli inizi dell’Ottocento gli Orsanti ricercavano nei boschi “le querce dell’orso”, ossia gli alberi che riportavano i graffi inflitti da questo animale dopo il letargo o comunque il periodo invernale. Invece, sulle Alpi e nell’Appennino centrale, l’orso non si è mai estinto anzi, fortunatamente e grazie anche alla reintroduzione dell’uomo sta tornando ad aumentare. I plantigradi usati dagli Orsanti dovevano comunque provenire in massima parte dall’estero e dai Balcani.
Cercando altrove ciò che la loro terra non dava, gli abitanti dell’Appennino settentrionale si propagarono non solo nella Penisola, in Europa e oltre. Fra loro vi era di tutto, ambulanti e venditori. Invece i cosiddetti “birbanti” preferivano turlupinare la gente fingendosi preti, devoti, santi e quant’altro, speculando sulla credulità e sulle disgrazie della gente.
Per esibirsi all’estero occorreva naturalmente essere in possesso di passaporto in regola e di un certificato di buona condotta. Tuttavia, i girovaghi erano accusati spesso di furti e truffe: la miseria, del resto, ne era spesso la causa e l’operato delle autorità era sovente ambiguo, teso da una parte a limitare gli spostamenti di persone a rischio e tendente dall’altro, a concedere di trovare altrove migliori condizioni di vita.
Le "tabelle" retributive
I tipi di contratto, che normalmente vincolavano i capi delle compagnie girovaghe alle famiglie dei ragazzi “noleggiati”, erano i seguenti: divenire padrone di un ragazzino o di un garzone, prevedeva un salario mensile variabile da 7 a 13 lire per un periodo di 30 mesi. Erano inoltre a carico del conduttore/padrone, il mantenimento, l’alloggio, il vestiario, le scarpe (fondamentali, poiché tutti gli spostamenti avvenivano sempre a piedi) e le cure mediche (non oltre i 15 giorni di malattia). Il mettersi in compagnia, riservato di solito ai ragazzi più grandi e intraprendenti oppure ai parenti, consisteva nella divisione dei guadagni, da pattuire preventivamente.
Il cosiddetto “servo”, invece, non riceveva personalmente compenso, che andava alla sua famiglia per mezzo di un anticipo, alcuni mandati di pagamento durante l’assenza, e un saldo finale una volta tornato a casa. A volte ai “servi”, dopo 15 mesi di lavoro (ossia mendicare e attirare la gente con piccoli animali) venivano regalati animali ammaestrati (sovente scoiattoli o topi bianchi), affinché potessero fare carriera da indipendenti.
Durante i viaggi di trasferimento per raggiungere il Paese desiderato, come l’Inghilterra, il ragazzo noleggiato non riceveva compenso, poiché in quel periodo il conduttore era in perdita. Naturalmente veniva utilizzato ugualmente per mendicare durante il tragitto.
La cattiva reputazione dei nostri emigranti
Per gli italiani più abbienti l’emigrazione dei poveri portava discredito alla dignità nazionale e anche accuse di malgoverno. Il mondo li credeva tutti vagabondi e fannulloni. Naturalmente l’emigrazione periodica era una cosa naturale e quindi inevitabile, per trovare occasioni di vita migliori. Del resto, gli italiani erano decisamente mal visti per via delle malefatte di cui effettivamente si macchiavano alcuni girovaghi. Né faceva notizia il fatto che la stragrande maggioranza dei loro compatrioti viveva onestamente lavorando per lo più come manovalanza.
I girovaghi italiani, che fossero birbanti, commedianti o altro, erano normalmente disprezzati provenendo dalle popolazioni più miserabili e degradate con caratteristiche che, si credeva, trasmettendosi geneticamente di generazione in generazione, ingeneravano la “repugnanza alla fatica di un lavoro regolare e la tendenza al furto e all’imbroglio”. Venivano descritti enumerando caratteri comuni degenerativi come “il prevalere del diametro bizigomatico, il forte sviluppo delle mandibole, l’abbondanza dei capelli, la lunghezza anormale delle braccia e lo sguardo torvo”.
La stessa descrizione valeva per tutti, indistintamente, inclusi i briganti meridionali e i suonatori di organetti. La crisi alimentare del 1816-1817 causò una ancora più forte emigrazione verso l’estero. Normalmente gli emigranti andavano in Francia o in Inghilterra. Negli anni ’30 fra i primi contadini italiani a sbarcare negli Stati Uniti vi furono anche “birbanti” e suonatori d’organetto. La presenza di questi girovaghi era malvista in Italia come all’estero e provocò proteste ufficiali. Nel 1857 i girovaghi sardi, che suonavano nelle strade di Londra in gran numero, furono attaccati dalla stampa inglese in modo perfido: “Perché Sua Maestà, il Re di Sardegna, non manda queste orde in Austria, invece di inviarle da noi che siamo sempre stati suoi buoni amici?”. Pochi anni dopo la Società Italiana di Beneficenza di Londra affermava che: “l’Italia è la sola Nazione che abbia qui a Londra un corpo organizzato di accattoni, come sono quei piccoli ragazzi che portano scimmie e quegli organari che annoiano il pubblico su strada”.
Maria Teresa Alpi, fondatrice del Museo
Il Museo gli Orsanti era nato originariamente a Compiano, nel Parmense, nella Chiesa sconsacrata di San Rocco, prima di trovare spazio in questi ultimi anni a Vigoleno, frazione del comune di Vernasca, a 350 metri di altitudine, che fa parte di uno dei borghi più belli d’Italia. Un luogo molto suggestivo che si trova sul crinale che separa la Valle del torrente Ongina dalla Val Stirone; un borgo fortificato eccezionalmente integro nelle sue forme e ricco di testimonianze storiche. Da segnalare che il trasloco da Compiano a Vigoleno non era stato accolto bene da diverse persone e istituzioni perché veniva snaturato il suo ruolo di testimonianza culturale del territorio. I numeri dei visitatori, purtroppo esigui, e più che altro i conti economici, hanno giocato come spesso accade un ruolo fondamentale nella scelta della nuova sede.
Resta comunque il ricorso vivido di Maria Teresa Alpi, stilista, artista e pittrice, proprietaria di questo singolare Museo e fondatrice dell'Associazione culturale Barbara Alpi. Purtroppo la “mamma” degli Orsanti è morta il 13 febbraio 2012 e da tutti quanti l’hanno conosciuta viene ricordata per il suo entusiasmo costante, la genialità dei suoi progetti, il carattere forte, “una vera forza della natura”. Con il suo impegno totalizzante è riuscita a sfondare in tutte le sue manifestazioni, sia artigianali (i Burattini di Donna Esa), sia artistiche (la pittura che rompeva ogni schema e che le ha permesso di conquistare i Musei di New York e Parigi) o l’ingresso prepotente nel settore della moda (le borse di Donna Esa). Si definiva lei stessa una “girovaga” (celebre il suo motto auto-ironico: “Sono l’ultima degli Orsanti”). Si era posta l'obiettivo di rivitalizzare il borgo di Compiano, epicentro di un fenomeno dell'emigrazione molto interessante ed aveva ideato anche il Festival dei Girovaghi. Nel corso della sua vita ha raccolto materiali e documenti straordinari di questi artisti originali e il loro stile di vita che tuttavia meriterebbero una maggior visibilità.
Note
[1] In:
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