top of page

Viaggio nell'Italia insolita e misteriosa.


Ozzano Taro, le meraviglie del passato al Museo Guatelli


di Ivano Barbiero



Sedicesima tappa nell'Italia "insolita e misteriosa" di Ivano Barbiero[1]. Dopo la casa torinese del "padre" della Mole Antonelliana, l'architetto Alessandro Antonelli, il nostro viaggiatore si riporta verso il centro Italia, per fermarsi nel cuore della pianura padana, a Ozzano Taro, sede di un curioso museo di cultura popolare, costruito pezzo dopo pezzo, è il caso di dirlo, da un personaggio curioso di un'altra epoca, Ettore Guatelli.





“Noi diciamo che se è giusto che si scrivano libri su un pittore o altri, ed è giusto che si sappia chi erano o cos’erano in quel periodo i papi, i principi, i condottieri, i filosofi, gli altri artisti contemporanei, è anche importante che si cerchi di sapere chi erano e come vivevano quelli che non erano importanti e che non facevano notizia”.


È una delle scritte emblematiche che ci accoglie all’ingresso del Podere Bellafoglia (nella foto copertina), a Ozzano Taro, una ventina di chilometri da Parma; dove ha sede il Museo Ettore Guatelli[2], una collezione di oggetti quotidiani del nostro passato neppure tanto lontano che è anche e soprattutto documentazione di cultura popolare. Un posto incredibile ed unico che vale assolutamente il viaggio nelle campagne della Bassa Padana, un luogo destinato inevitabilmente a stupire e a lasciare a bocca aperta.

La figura di Ettore Guatelli

Nato a Collecchio, il 18 aprile 1921, e morto a Ozzano Taro il 21 settembre 2000, Guatelli (nella foto) amava definirsi maestro contadino. A causa di problemi di salute, era affetto da tubercolosi ossea, non ebbe una formazione scolastica regolare e nel 1945 riuscì a conseguire il diploma magistrale grazie anche all’aiuto del poeta Attilio Bertolucci, padre dei registi Bernardo e Giuseppe, che, in cambio della battitura a macchina dei suoi testi, lo preparò all’esame.


Dall’inizio degli anni Settanta fino a poco prima di morire, Guatelli ha modificato e riallestito continuamente il suo “tesoro”, coltivando una trama di relazioni che gli ha consentito di commerciare, acquistare e raccogliere cose e informazioni. Fondamentali, per il reperimento degli oggetti e talvolta del loro significato, sono stati i suoi fornitori, principali referenti i raccoglitori, i rottamai e gli antiquari che, tra la fine degli anni Cinquanta e durante gli anni Ottanta, hanno commerciato moltissimi oggetti provenienti dalle case contadine e da luoghi di produzione che venivano rimodernati.




I fornitori di Guatelli, dai quali il maestro di Ozzano ha comprato quasi 60.000 oggetti, sono stati oltre settanta, ma quelli abituali una ventina, principalmente rottamai e raccoglitori dell’Appennino e della bassa cremonese e parmense - che si rifornivano anche in Piemonte e in Liguria - la cui attività, nata come reazione alla povertà, era raccogliere e rivendere mobili, ferro, stracci e scarti della lavorazione alimentare. Viceversa, le richieste di Guatelli hanno stimolato i raccoglitori a recuperare materiale di scarso valore economico che il mercato antiquario trascurava, e che di conseguenza rischiavano di essere perduti per sempre.


Un tour a ritroso nel tempo

Grazie a questi presupposti è ora possibile percorrere in un paio d’ore un incantevole tour a ritroso nel tempo, sfiorando e toccando orologi, pendole e sveglie, strumenti musicali di ogni genere, lanterne, lumi a petrolio, botti, tini. ruote di carri, valigie, fiaschi di vino e migliaia di attrezzi di lavoro. Oggetti tutti usati, segnati e graffiati da anni e anni di consumo. Non mancano in questa carrellata del quotidiano, ma mai banale, i contenitori di vetro stipati all’inverosimile, i torni antidiluviani di legno ma di altissima precisione, decine e decine di ferri da cavallo e per le mucche, zangole per fare il burro e cardatrici rudimentali quanto efficaci. Notevole, inoltre, la collezione di stufe e quella dei contenitori di latta di ogni forma e foggia, mentre destano altrettanto stupore le migliaia di giocattoli realizzati da Guatelli stesso, ma anche da adulti e bambini, con il minimo indispensabile e tanta, tantissima fantasia.

Dopo pochi minuti, dall'inizio della visita, vi renderete conto che si tratta di un luogo realmente difficile da descrivere ed elencare. Il creatore di questa sorta di paese delle meraviglie ha voluto chiamarlo in modo semplice il Museo dell’ovvio o del quotidiano. In realtà, capirete che non si tratta soltanto di un museo agricolo o di una raccolta di oggetti contadini. Ogni singolo pezzo sembra vibrare al vostro contatto, quasi avesse la smania di raccontare la propria storia. In questo caso il medium di turno che ci è toccato è stato Sergio, una guida innamorata del proprio compito, che ci ha raccontato con grande sapere a cosa servissero i vari oggetti in mostra e raccontando inoltre aneddoti di vita di Guatelli. In questo modo è riuscito a ricreare il ruolo del creatore del Museo che con calma e pazienza certosina, giorno dopo giorno, anno dopo anno, ha raccolto, catalogato e selezionato questa mole impressionante di materiale, riempiendo poi ogni spazio pensabile e immaginabile che aveva a disposizione. Per realizzare quanto aveva in mente ha utilizzato migliaia di chiodi, viti, fili di ferro e ganci, fissando la sua gigantesca e sterminata collezione su pareti, soffitti, pavimenti, scale, sottotetti. Un lavoro meticoloso, lungo e complesso, da cui sono scaturite trame e geometrie sorprendenti, spettacolari. Non una semplice opera di riempimento, ma un innegabile gusto per la composizione dei vari spazi, mai lasciata al caso, anzi attentamente studiata, da cui è emersa prepotente una innegabile vena artistica.

Il confronto con la vita di ieri e di ... ieri l'altro

Con questi presupposti poetici preparatevi a restare sorpresi appena entrerete nella camera quasi magica della zia o in quella dei vetri. Identico stupore che proverete anche nella stanza delle scatole di latta o in quella dei giocattoli. Sì, perché in questa casa colonica con annessi i rustici e un’altra decina di container stipati di roba e posti tutt’intorno sui prati (materiale che prima o poi verrà catalogato e reso visibile ai visitatori dai membri della Fondazione), si rischia realmente di perdere la testa. Tanto da domandarsi come sia stato possibile raccogliere questo immenso materiale e come sia stato possibile per i nostri antenati vivere in questo modo con quel poco che avevano a disposizione.

Immaginatevi un solo momento com’era la vita, cento, cento cinquanta anni fa, senza luce, senza elettricità, senza acqua in casa, senza gas o riscaldamento, senza tutte le comodità che la maggior parte di noi possiede e considera normali o ovvie. Poi continuate a pensare come riuscireste a organizzare voi la vostra vita. Pensate anche che in un mondo contadino non era importante per le donne saper cucinare, ma saper cucire, perché a quei tempi non si buttava nulla e tutto veniva riparato, aggiustato, riadattato, finché c’era un pezzo di stoffa da rammendare e un pezzo di pelle da ricucire, a volte anche con il fil di ferro. Perciò nessuna sorpresa se troverete diversi vecchi piatti in bella mostra sapientemente “ricuciti”, e tante scarpe “allungate” a seconda della crescita del piede di chi le indossava.

In questa esposizione del fai da te dei tempi andati, come non restare estasiati da una sedia di pietra incavata, resa agevole e confortevole per chi aveva una malformazione all’anca e la gamba paralizzata che non gli permetteva di piegare l’arto. O come non osservare con estrema attenzione una bicicletta, pieghevole, costruita 90 anni fa. interamente in ferro battuto. Per non parlare di una antica sedia, una sorta di antesignana di una marca ora in voga, che all’occorrenza si ribaltava, trasformandosi in una scaletta a quattro scalini.


Tanti gli oggetti a prima vista simili e ripetitivi, ma in realtà diversi e deformati a seconda di chi li utilizzava. Ecco allora il mantice di un organo di una chiesa, recuperato e utilizzato per alimentare il fuoco di un fabbro. Oppure un otre, per il trasporto del vino e dell’olio, fatto con la pelle rovesciata di una capra o di una pecora. Ancora: conservata in una scatolina di vetro, l’autentica polvere dei tarli ricavata da mobili ormai vetusti e utilizzata come cipria per le donne. Degni poi di riflessioni, gli elmetti dei soldati tedeschi, usati come spregio in vari modi: per pulire le fogne, posti sopra i camini per evitare che gli uccelli vi facessero il nido oppure utilizzati come porta braci per scaldare i letti dentro i trabiccoli di legno. Infine: come non rimanere incantati da un porta fisarmonica diventato un contenitore per tortore. Ultimo piccolo particolare: quando salirete le scale, se siete superstiziosi, evitate di sfiorare i mancorrenti: sono stati realizzati utilizzando gli addobbi metallici esterni di vecchi carri funebri.


"Orsari" e "scimmianti"

Ulteriore curiosità: in una stanza ci sono tracce di antichi mestieri ormai scomparsi: l’orsaro e lo scimmiaro, ovvero gli ammaestratori di orsi e scimmie che giravano numerosi tra gli Appennini e le Alpi, ma non solo. Un fenomeno diffuso a partire dal 1700 che affascinava in particolar modo le genti di montagna.

Gli orsanti e gli scimmiari, così venivano soprannominate queste due categorie e tutti quelli che facevano spettacolo con animali ammaestrati sono stati un fenomeno migratorio che ha coinvolto centinaia di persone fra il Settecento e l’Ottocento e che ha avuto ancora echi fino agli anni ’50 del Novecento. Costoro provenivano da valli incassate tra l’Emilia-Romagna, la Liguria e la Toscana; si muovevano per l’Europa facendo esibire animali ammaestrati che suonavano diversi strumenti musicali, facevano capriole e giravolte, sembravano capire quello che veniva chiesto. Un misto tra specie domestiche ed esotiche che catturava sempre l’attenzione del pubblico. Pappagalli, cani, uccelli, cammelli, dromedari, scimmie, pecore e orsi erano le attrazioni proposte da questi girovaghi di strada.

Gli orsi, in particolare, rappresentavano il pezzo forte degli spettacoli poiché lottavano con l’uomo che inevitabilmente vinceva sempre, salvo qualche incidente fuori programma che a volte capitava. Di solito però si assisteva a un’esibizione impressionante, poiché c’erano esemplari che pesavano anche tre quintali e mezzo e sulle zampe posteriori superavano i due metri di altezza. Per addestrare questi mammiferi e obbligarli a “danzare”, si ricorreva a metodi crudeli: in giovane età si utilizzavano delle piaste roventi o dei carboni ardenti, costringendo l’animale a salirvi sopra e suonando allo stesso tempo un flauto, un violino o un organetto. Per il dolore il plantigrado saltava da una zampa all’altra e quando c’era la rappresentazione in mezzo alla gente era sufficiente suonare lo strumento musicale, perché l’animale associasse subito il suono al dolore e iniziasse a saltellare.



Note



[2] Orari del Museo Ettore Guatelli: tutte le domeniche e i festivi da marzo al 10 dicembre (15-18).

Per la visita infrasettimanale è sempre richiesta la prenotazione con almeno tre giorni di anticipo.

Le visite sono solamente guidate e durano un’ora e mezza. Costo del biglietto, 5 euro.

Per informazioni e prenotazioni, tel. +39 350 1287867 e-mail: info@museoguatelli.it

196 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page