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L'Editoriale della domenica. La strategia di Netanyahu per "evacuare" i palestinesi da Gaza

di Michele Corrado


Le operazioni dell’IDF nella striscia di Gaza stanno andando avanti da circa venti mesi ed uno degli obiettivi di tale operazione, la liberazione degli ostaggi, non è stato ancora raggiunto. L’altro, la distruzione delle milizie di Hamas, neppure. In compenso, è stata distrutta una percentuale rilevante di edifici e quotidianamente sono in azione i bulldozer e aumenta il numero delle vittime, soprattutto civili. Ieri, denuncia sul suo sito l'israeliano Haaretz, 78 morti palestinesi per attacchi notturni. Ci si può quindi ragionevolmente chiedere il perché e quali siano i nuovi obiettivi del governo israeliano.

La Striscia di Gaza, pur essendo densamente abitata (circa 5500 abitanti per kmq), è di contenute dimensioni, 365 kmq, e di forma semi rettangolare. Gli israeliani vi hanno poi scoperto che una fittissima rete di gallerie governa il sottosuolo dell’area, gallerie completamente gestite da Hamas, che di fatto è l’autorità politico-militare che esercita il controllo politico dell'intero territorio.

Hanno quindi radicalizzato l'opinione che per posizione e forma dello Stato israeliano la Striscia costituisce una minaccia permanente nei confronti dei loro vissuti quotidiani. Sembra quindi che vogliano passare da uno stato di controllo e vigilanza della minaccia, alla risoluzione della minaccia, annullandola, definitivamente. Se si interpreta la "filosofia" del premier Netanyahu e di una parte del suo governo.

Questo in parte dovuto alla stanchezza di una convivenza che non pare evolversi nel tempo, ma mantiene costantemente le caratteristiche di un perenne conflitto ed in parte alla constatazione delle risorse, sia umane che finanziarie, che necessitano per un costante contenimento della minaccia. Le reazioni dei riservisti delle ultime settimane ne sono una conferma indiretta.

Pertanto, pare, che l’obbiettivo finale dell’intervento militare israeliano sia quello di sgomberare la Striscia dai residenti palestinesi costringendoli a trasferirsi in un diverso territorio, che allo stato attuale delle cose non può essere che l’Egitto.

Ciò realizzerebbe un doppio risultato, il primo nel non dovere convivere costantemente con una minaccia che ha portato al dramma terroristico del 7 ottobre 2023, il secondo un aumento della superficie dello Stato ebraico che di fatto tende ad inglobare la Striscia in territorio israeliano.

Un ulteriore e fondamentale risultato sarebbe poi quello di privare Hamas della rete di tunnel che ne ha consentito e ne consente l’operatività all’interno della Striscia.

Ulteriori considerazioni vogliono che l’operare militarmente all’interno di centri abitati di grandi dimensioni, come ad esempio la Striscia, è insostenibile nel lungo periodo determinando quindi una scelta, che dopo svariati decenni di conflitto di conflitto, è giunta a compimento.

Nell’ottica israeliana l’evacuazione della Striscia può essere considerata come una soluzione fattibile ed economica sul lungo periodo al perdurare della attuale situazione.

Duplici sono i segnali che pervengono da parte israeliana ad avvalorare questa ipotesi: la prima è la dichiarazione di occupazione permanente del nord dalla Striscia e conseguente abbandono della zona da parte di tutti i residenti che verrebbero a spostarsi verso sud. Tale situazione consentirebbe un semplice controllo della parte della Striscia occupata dall’IDF, costringendo Hamas ad abbandonare quelle aree o ad ingaggiare le Forze israeliane senza lo schermo dei residenti che, per numero e densità, ne consentono la sopravvivenza (come in un acquario, per catturare i pesci devo togliere l’acqua, dove l’acqua sono i palestinesi ed i pesci i miliziani di Hamas).

La seconda nelle decisioni di parzializzare fortemente gli aiuti umanitari, che nell’attuale contesto, spingono i residenti palestinesi a spostarsi in zone (vale a dire più a sud), che sarebbero meglio rifornite di aiuti.

È una tecnica molto usata, anche in ambito UNHCR, per favorire lo spostamento di masse di profughi verso predeterminate aree. In gergo militare, anche se può apparire una ricostruzione cinica rispetto alle centinaia di morti quotidiani, la si definisce del "pistone" e si attua definendo il posizionamento di una linea iniziale, che nel caso israeliano è il lato nord della Striscia. Successivamente si dispone sul terreno il cosiddetto "cilindro" che l'esercito israeliano piazza al confine del Libano, area sufficientemente sicura, mentre dall'altra parte la sicurezza è assicurata dal mare e ad est dal muro costruito da Tel Aviv. Assicurati i lati, il "pistone" comincia a comprimere, a spingere. Ed è ciò che fa sistematicamente dalla rottura della tregua l'IDF, costringendo i palestinesi ad abbandonare il territorio e a spostarsi verso l'Egitto. Non a caso, sempre Haaretz oggi pubblica le rivelazioni del Sunday Times, secondo cui l'IDF prevede la divisione della Striscia di Gaza "in tre distretti separati e costringere i residenti a entrarvi nel caso in cui i negoziati per il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi dovessero fallire nei prossimi giorni".

Tempi brevi e tempi lunghi. Ovviamente, il metodo "pistone" non prevede tempi immediati, ma tale tipo di processo una volta iniziato si autoalimenta. E l'Occidente lo sa benissimo, dagli Usa all'Europa, agli stessi leader che si indignano per i morti quotidiani provocati dai bombardamenti israeliani.

Evidentemente, il governo di Israele è giunto alla conclusione dell'impossibilità di convivere con una realtà palestinese che si reputa completamente asservita a milizie, in questo caso Hamas, che hanno come obiettivo finale l’abbattimento della sua organizzazione statuale, realizzata nel 1948. In altre parole, nell'ottica israeliana non ci sono alternative praticabili che consentano di realizzare condizioni di sicurezza accettabili e permanenti. Dura lex, sedlex: ignorare questa direzione di marcia presa a larga maggioranza dallo Stato di Israele (all'opposto Netanyahu sarebbe stato già "dimissionato"), non fa altro che accentuare i livelli di ipocrisia del mondo e concorrere a prolungare l'agonia del popolo palestinese, il cui destino è segnato se non si preme su Israele per sospendere l'operazione "Carri di Gedeone".

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