Trump nel mirino di Moody’s: Usa, allarme debito pubblico
- Stefano E. Rossi
- 18 ore fa
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Aggiornamento: 10 ore fa
di Stefano E. Rossi

Sono le 17:13 di venerdì sulla costa orientale e una nuova bomba finanziaria si abbatte fragorosamente su Wall Street. A lanciarla è l’agenzia internazionale di rating Moody’s, che da oltre un secolo assegna con rigore e in modo indipendente i giudizi sul debito degli Stati sovrani. Stavolta si tratta del declassamento dei titoli di Stato americani con scadenza a lungo termine.
Da noi è notte e la notizia, seppur con piglio sonnecchioso, si fa subito strada. Sinceramente, era già successo in passato ad opera delle altre due agenzie di rating e sempre a discapito dei titoli Usa di più lunga durata. Standard & Poor's (S&P) aveva declassato il cosiddetto debito LT (long term) dalla tripla A ad AA+ il 5 agosto 2011, ben 14 anni fa, mentre Fitch ha operato il suo downgrade più di recente, il 1 agosto 2023.
Mancava all’appello Moody’s, che però già un paio di anni fa aveva espresso un outlook negativo, cioè una visione pessimistica. Ora si è nuovamente espressa con la riduzione di un notch, cioè di uno dei 21 livelli che compone la sua scala dei gradi di giudizio.
Quindi, viene da pensare che potrebbe non esserci alcuna sorpresa tra gli operatori di borsa per questa scelta che Moody’s, da buona ultima, ha apportato. Però, come spesso accade, a far male non sarà l’allineamento alle altre due agenzie di rating, ma le motivazioni pubblicate a integrazione della valutazione. Queste si basano sull’espansione del deficit fiscale e sull’incremento della spesa per interessi del debito pubblico.
Eccole nel dettaglio: Per oltre un decennio, il debito federale statunitense è aumentato drasticamente a causa dei continui deficit di bilancio. In questo periodo, la spesa federale è aumentata, mentre i tagli fiscali hanno ridotto le entrate statali. Con l'aumento del deficit e del debito e l'aumento dei tassi di interesse, gli interessi sul debito pubblico sono aumentati notevolmente.
Inoltre, l’analisi prosegue precisando che l’onere degli interessi della pubblica amministrazione statunitense, che tiene conto del debito federale, statale e locale, ha assorbito il 12% delle entrate nel 2024, rispetto all'1,6% dei titoli sovrani con rating Aaa. E lo scenario non può che peggiorare: è probabile che il pagamento degli interessi federali assorba circa il 30% delle entrate entro il 2035.
Infine, a proposito di un outlook diventato stabile, una frecciatina (benevola) a Trump, solo per ricordargli di essere osservato: sebbene sia probabile che la crescita del PIL rallenti nel breve termine, con l'adeguamento dell'economia ai dazi doganali più elevati, non prevediamo che la crescita a lungo termine degli Stati Uniti ne risenta in modo significativo. Inoltre, lo status del dollaro statunitense come valuta di riserva dominante a livello mondiale fornisce un significativo supporto creditizio al Paese sovrano.
Cosa capiterà adesso non è, purtroppo, di immediata intuizione. La comunicazione è pervenuta a borse appena chiuse e ad auguri di …buon week end già postati sui social dei broker e dei gestori dei fondi d’investimento.[1] Sicuramente la nuova amministrazione Usa non apprezzerà la decisione e, in questo caso, le reazioni sono abbastanza prevedibili. Per le altre, c’è da aspettare lunedì mattina. Probabilmente i mercati faranno sentire una certa irritazione e registreranno una maggiore disaffezione da parte degli investitori internazionali. Il declassamento potrebbe comportare la diminuzione del valore dei titoli che i risparmiatori americani detengono in portafoglio. Ma non solo. Dato che i Treasury Bonds sono stati a lungo considerati beni rifugio dall’intera comunità finanziaria internazionale, le ripercussioni rischiano di avere una portata planetaria, perché sono sicuramente presenti nella maggior parte dei portafogli titoli degli investitori di tutto il mondo, sia direttamente, sia per il tramite di fondi d’investimento. L’effetto non sarà certo paragonabile al primo downgrade, che nel giro di due mesi, ad agosto e settembre 2011, aveva provocato il crollo dei T-Bond del 19%. Ma qualche reazione sul fronte finanziario o su quello delle politiche fiscali d’oltreoceano potrebbe realisticamente averlo.
Insomma, i tormenti dello Zio Sam non sembrano essere finiti e, per giunta, continuano a coinvolgerci da vicino.
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