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Viaggio nell'Italia insolita e misteriosa.

Aggiornamento: 29 mar

La Basilica Polironiana di San Benedetto Po, mille anni di storia tra i fiumi Po e Lirone


di Ivano Barbiero


Ventiseiesima tappa alla ricerca dei luoghi misteriosi che caratterizzano il nostro Paese.[1] Da Brolo, frazione di Nonio, poche centinaia di anime che rimirano il lago d'Orta, ma soprattutto orgogliose dei loro colonie feline, il nostro viaggiatore Ivano Barbiero cala in Lombardia, nel Mantovano, e ci trasporta indietro nel tempo, all'epoca medioevale, per scoprire l'Abbazia di San Benedetto in Polirone fondata nel 1007 dal conte di Mantova Tedaldo di Canossa, nonno della famosa Matilde.


La millenaria Basilica Polironiana di San Benedetto Po è un luogo intriso di mistero e storia, dove le pietre raccontano segreti e leggende. Immaginatevi un affresco di creature mostruose: basilischi, arpie, sfingi, ippogrifi, serpi, unicorni. Questi esseri fantastici danzano sui pavimenti, nel cuore del Mantovano. La loro presenza evoca un’atmosfera di terrore e superstizione che permeava la Bassa Padana nel secondo millennio. Ma non lasciatevi ingannare, al di là di queste inquietanti figure, l’abbazia benedettina è un gioiello che regala due ore di puro piacere.


All’ingresso del sacro edificio si erge una statua di Eva completamente nuda, scolpita in terracotta policroma da Antonio Begarelli, uno dei massimi scultori del Rinascimento italiano. È una delle 32 sculture che adornano, dentro e fuori, la basilica, ma è la più ammirata e toccata. Alcuni visitatori, quasi per scaramanzia, le accarezzano i piedi, immaginando che, se fosse stata posta più in basso, sarebbe ora in parte consumata. Ma la Basilica Polironiana parla soprattutto al femminile. Lo stupendo coro ligneo, realizzato nel 1550 dal bresciano Vincenzo Rovetta e posto dietro l’altare, ha gli stalli intagliati con i poggia mani che alternano tre volti di figure femminili con quelli di tre orrende arpie; quasi a ricordare le diaboliche tentazioni che potevano indurre a peccare anche i religiosi. Inoltre, due benefattrici, con disposizioni testamentaria, hanno voluto essere sepolte qui. Tra il 1115 e il 1632 la basilica ha ospitato la tomba di Matilde di Canossa, una delle donne più influenti del Medioevo. Contessa di Mantova, duchessa di Spoleto, margravia di Toscana, titolare di altri onori, fu una figura di grande potere. Il suo corpo fu poi traslato, “per necessità”, nella basilica di San Pietro a Roma. L’altra benefattrice, Lucrezia Pico della Mirandola, è stata una nobildonna italiana vissuta dal luglio 1458 al 4 settembre 1511. Sesta di sette figli (tra questi il più famoso fu Giovanni Pico della Mirandola, umanista e filosofo), l’11 giugno 1500 dettò il proprio testamento con cui intendeva lasciare le sue proprietà ai monaci benedettini di Polirone a San Benedetto Po, affinché costruissero una nuova chiesa (edificata poi nel 1539 su progetto di Giulio Romano). In seguito, nel 1503, quando morì anche il secondo marito, la nobildonna commissionò, per lui e per sé stessa, un sepolcro scolpito, in stile simile a quello di Matilde di Canossa, da collocare nell’abbazia.



Ironia della sorte, quasi nello stesso periodo, un’identica condizione compariva nel testamento del milanese Cesare Arzago, che desiderava anche una cappella privata destinata alla sua sepoltura. Qualcosa, in realtà, si era cominciato a fare, tra il 1525 e il 1527, ma queste disposizioni testamentarie erano poi state rinviate per lungo tempo. Nel 1538 era abate di San Benedetto, Gregorio Cortese che rientrava, dopo alcuni anni trascorsi nel monastero di San Gorgio Maggiore a Venezia e subito dovette affrontare questa questione assai delicata. Anche per la pressione dei suoi superiori decise quindi di iniziare i lavori. Prima però stabilì una modifica: non sarebbe stata costruita una nuova chiesa, troppo costosa anche per le possibilità economiche del monastero, ma ci si sarebbe limitati a ristrutturare quella antica, Fu però necessaria una bolla papale, giunta il 23 luglio 1538 per l’autorizzazione a quel nuovo progetto che eludeva, ancora una volta, la precisa volontà dei donatori.



Tutta la storia dell’abbazia di Polirone, però, è altrettanto curiosa e per certi versi addirittura intrigante. Il complesso sacro ha sempre occupato un ruolo fondamentale nella storia del monachesimo italiano, per l’impegno religioso, politico e culturale. Era il 1007 quando il nobile Tedaldo di Canossa, nonno della celebre Contessa Matilde, decise di costruire l’abbazia, dedicandola a sé stesso e alla defunta moglie Willa. La donazione includeva metà dei terreni fra i fiumi Po e il Lirone, assegnando poi ai frati benedettini, sette in tutto, l’isola formata dai due corsi d’acqua. I Canossa, inizialmente dominanti negli Appennini, tra Toscana ed Emilia, avevano esteso i loro interessi anche nella Pianura Padana, e il fiume più lungo d’Italia era diventato il loro centro focale di affari. Con la fondazione dell’edificio religioso, Tedaldo puntava a controllare, non solo spiritualmente, l’intero territorio e ad aumentarne la produttività, ma soprattutto garantendosi i controlli sulla navigazione. In queste terre non rimanevano che pochissimi abitanti, riuniti attorno ad una piccola cappella costruita nel 962 dedicata a Santa Maria, San Benedetto, San Michele Arcangelo e San Pietro. Del precedente insediamento romano sono però rimaste poche tracce. Fu verso la metà dell’XI secolo che Bonifacio di Canossa, signore del territorio, riedificò la chiesa dedicandola a san Simeone di Polirone.


Nel 1077, durante l’incontro a Canossa tra l’imperatore Enrico IV e il papa Gregorio VII, la principessa Matilde, succeduta al padre Bonifacio, donò il monastero al Santo Padre, che a sua volta lo affidò all’abate dell’abbazia di Cluny, Ugo di Cluny. Perciò, l’abbazia mantovana aderì alla riforma di Cluny e alle Consuetudines del monastero francese che regolavano la vita, la liturgia e anche l’architettura: L’edificio sacro fu allora ricostruito, verso il 1130, secondo lo stile cluniacense con deambulatorio, cappelle radiali e transetto absidato. Anche l’attiguo oratorio di Santa Maria, consacrato nel 1085, venne così adattato per riprodurre quello analogo di Cluny.

Grazie alle costanti donazioni dei Canossa, in particolare della contessa Matilde, il monastero divenne uno dei più importanti d’Europa e venne denominato La Montecassino del Nord. A quei tempi era dotato di un celebre scriptorium, dove venivano trascritti manoscritti, sia per uso liturgico, sia per studi. Invece, durante la lotta per le investiture, fu anche uno dei principali centri della diffusione della riforma gregoriana nell’Italia settentrionale oltre ad essere un attivo centro intellettuale che promosse studi teologici e la cultura artistica

Nel Cinquecento l’abbazia raggiunse così un nuovo eccezionale splendore, tanto che, tra i numerosi ospiti, si contavano personalità illustri quali Martin Lutero, Paolo III, Vasari, Torquato Tasso e Palladio. Anche il Correggio fu chiamato a lavorare. A Paolo Veronese furono invece commissionate tre pale, da destinarsi alle prime tre cappelle di destra e l’artista le realizzò in soli tre mesi, tra la fine del 1561 e il marzo 1562. Si tratta de La Consacrazione di San Nicola che si trova ora alla National Gallery di Londra. Invece il secondo dipinto La Madonna con Bambino e San Girolamo andò distrutto nel 1836 nell’incendio della Yates Galleries di Londra, mentre il terzo, La Madonna con Bambino, sant’Antonio abate e san Paolo eremita, si trova al Chrysler Museum of Art di Norfolk (Stati Uniti d’America), dopo essere transitato da una collezione privata francese prima del 1850.

Da segnalare anche che i monaci che si stabilirono nell’isola dove si trovava l’abbazia, furono impiegati per secoli nel consolidamento del tratto mantovano del corso del Po, al fine di arginare i danni delle allora frequenti esondazioni. In quel periodo il fiume non era regolato dagli argini, ma scorreva abbastanza liberamente per tutta la pianura, distruggendo con i suoi straripamenti il lavoro dei campi. Tutto questo lavoro si sviluppò, nei primi quattro secoli dell’Anno Mille tra l’ira e lo sbeffeggio dei contadini, obbligati man mano a contribuire al sostentamento dell’abbazia, addirittura con un terzo del loro raccolto. Inoltre, gli abitanti avevano anche l’obbligo di aiutare i monaci nei lavori di bonifica ed è indubbio che grazie a questa laboriosità, tutti insieme, riuscirono nell’intento di bonificare il territorio, che è tuttora uno dei più fertili in Italia. Tuttavia, queste imposizioni causarono forti contrasti. Fu infine Maria Teresa d’Austria che cercò di accontentare le esigenze dei coloni, intestando loro fondi agricoli. Durante il suo governo, grazie alle sue riforme, promosse una modesta ripresa economica. Il suo intervento pose così fine ad una secolare lotta, che nel 1519 aveva addirittura provocato l’uccisione di Fra’ Bonaventura.



Purtroppo, le vicende successive raccontano anche di un lento decadimento, del monastero, di poco antecedente, da parte di Napoleone Bonaparte (1797), alla soppressione di tutti gli ordini religiosi e delle confraternite. Tutti i beni delle istituzioni soppresse vennero incamerati, requisiti o ceduti alle istituzioni civili o militari. Prima di allora, nel ‘600 e ‘700, la storia del complesso monastico racconta di altre inondazioni, guerre e saccheggi. L’Ordine si era talmente impoverito, che l’abate reggente, nel 1633, vendette al Papa Urbano VII il corpo della contessa Matilde, in cambio di una notevole somma di denaro. Matilde riposa ora in San Pietro, in un ricco sepolcro costruito dal Bernini.


Centro di potere e cultura, l’abbazia, che ha anche il fregio di basilica minore, è rimasta un complesso straordinario che permette con i suoi tesori di ripercorrere secoli di storia e di arte. La presenza predominante è quella del grande architetto e pittore Giulio Romano (nome d’arte di Giulio Pippi de’ Jannuzzi). Questa importante e versatile personalità del Rinascimento e del Manierismo, tra il 1540 e il 1547, riedificò la Basilica Polironiana, senza demolire le vecchie strutture romaniche e gotiche, aggiungendo delle cappelle laterali e allungandola di una campata.


La facciata inferiore fu progettata da lui, mentre quella superiore fu aggiunta nel Settecento per proteggere l’organo internamente. Per far convivere i diversi stili architettonici, Giulio Romano adottò soluzioni originali, creando un interno raffinato ed omogeneo. Luce, gioia e leggerezza sono le impressioni che si provano appena varcata la soglia d’ingresso. Romanico, gotico, rinascimentale e barocco sono amalgamati con estrema sapienza e maestria, e c’è una complessiva predominanza di colori tenui e chiari.

Degno di visita anche il Chiostro dei Secolari, comunicante con la piazza d’ingresso alla cittadella monastica: Era il luogo dove venivano accolte tutte le persone che arrivavano al monastero. Il piano terra, ai lati est e sud, era destinato a foresteria di poveri e pellegrini e il piano superiore agli ospiti di riguardo.

L’attiguo chiostro di San Simeone, al piano superiore, era occupato a est dall’infermeria vecchia e dalla biblioteca, mentre a sud si trovava la dimora dell’abate; a nord e a ovest c’erano invece le celle-dormitorio dei monaci. I monaci di passaggio erano ospitati al pianterreno dove c’era anche la sartoria, la calzoleria, la farmacia e l’ingresso per la cantina.

Il chiostro, in stile tardo gotico, assunse l’aspetto attuale tra il 1458 e il 1480.  Il lato più antico è quello a ovest, che reca ancora tracce romaniche. Sul lato nord si affaccia infine l’attuale Biblioteca Comunale di San Benedetto, posta in quella che doveva essere la Sala del Fuoco del monastero.

Le sorprese non sono affatto finite. Sono notevoli e degne di visita anche le decorazioni a fresco nei sottarchi dei portici con tondi entro i quali sono dipinti busti di vescovi benedettini, in stile tardo gotico. Su questo strato vennero poi dipinti, nel secondo Cinquecento, busti di papi. A quell’epoca risalgono anche gli affreschi con le Storie di San Simeone, che si ammirano nelle lunette del chiostro, attribuibili a pittori forse di scuola fiamminga. Storia a sé la fanno gli stupendi armadi intagliati della ricchissima sacrestia, disegnati Da Giulio Romano e realizzati dal bolognese Gian Maria Piantavigna, tra il 1561 e il 1563. La struttura, di carattere sostanzialmente architettonico, è impreziosita da festoni, candelabri e grottesche.

La chiesa abbaziale di Polirone ha anche la dignità di basilica minore. In tutto il mondo si fregiano del titolo poco più di 1600 chiese (si tratta soprattutto di importanti santuari), di cui 550 solo in Italia. Però è inutile che ne cerchiate all’ingresso o all’interno le insegne pontificie, ovvero il padiglione, un parasole conico in seta a strisce rosse e gialle, e il tintinnabulum, campanellino per uso liturgico: nel corso del tempo sono purtroppo andati persi.



Ulteriore stupore la crea infine la sala del refettorio dove i monaci consumavano i pasti in silenzio, ascoltando un confratello che declamava le letture. Nel 1510 venne deciso di decorare tutta la parete ovest e per questo vennero chiamati due artisti: il veronese Girolamo Bonsignori che dipinse l’Ultima Cena su una tela incastrata nel muro (oggi conservata nel Museo Civico di Badia Polesine) e il giovane Antonio Allegri, detto Il Correggio, che tra il 1513 e il 1514 affrescò l’Architettura dipinta in cui il Cenacolo si immaginava inserito.

Ulteriore curiosità: San Simeone è il patrono dell’abbazia il cui titolare era San Benedetto, e mantiene ancora oggi il patronato sulla parrocchia, poiché il suo culto che ha avuto un risvolto anche popolare è stato ininterrotto. Fu Bonifacio di Canossa, il padre di Matilde, a chiedere ed ottenere dal Papa il riconoscimento della santità del pellegrino armeno che aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita in un’umile celletta nei pressi del cenobio benedettino. La prima cappella laterale a sinistra è infatti dedicata a lui e questo santo è spesso rappresentato con una cervetta, il simbolo del monastero. I manoscritti usciti dallo scriptorium di San Benedetto sono ancora riconoscibili, in diverse biblioteche americane, grazie proprio a una cervetta disegnata su di essi.

C’è poi da sorridere, pensando al soggiorno di Martin Lutero a San Benedetto Po. Avvenne nel 1510, quando la Basilica era in pieno restauro e i mezzi economici a disposizione per i lavori erano davvero tanti. Questo sfarzo suscitò un sentimento di scandalo nel giovane monaco che avrebbe poi avviato la Riforma protestante. Si dice che restò sconcertato da tanta opulenza, ma non certo non immaginava che cosa l’attendesse a Roma. Assieme al suo maestro Johann Nathin, stava recandosi in Vaticano per portare una lettera di protesta in merito ad una diatriba interna all’ordine agostiniano. Com’era consuetudine, arrivato nella città eterna, Lutero ne approfittò per ammirarne i capolavori, facendo il giro dei luoghi santi, per guadagnare indulgenze. Un percorso di fede e preghiere che comprendeva le quattro basiliche maggiori: San Pietro, San Giovanni in Laterano, San Paolo fuori le mura, Santa Maria Maggiore.

Il futuro iniziatore del protestantesimo constatò di persona l’empietà della Città eterna. Il biografo inglese Roland Bainton, scrive infatti che fin dal suo arrivo Lutero ebbe delusioni di vario genere, soprattutto da parte dei preti locali. Essi lo colpirono per la “crassa ignoranza e frivolezze”, in quanto erano in grado di celebrare in fretta e furia sei o sette messe nello stesso tempo in cui lui ne celebrava una soltanto. Inoltre, egli inorridiva nel sentir dire che i quartieri malfamati della futura capitale d’Italia erano frequentati da ecclesiastici e che alcuni di essi si reputavano virtuosi perché si limitavano ad avere rapporti con donne.



Note


[1] In:

https://www.laportadivetro.com/post/viaggio-nell-italia-insolita-e-misteriosa-24;

https://www.laportadivetro.com/post/viaggio-nell-italia-insolita-e-misteriosa-23;

https://www.laportadivetro.com/post/viaggio-nell-italia-insolita-e-misteriosa-21;


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