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La Linea Cadorna, uno sguardo sulla guerra di ieri con la paura che ritorni oggi

di Marco Travaglini


L'8 luglio 1914, dieci giorni dopo l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando, in occasione di una cena con gli antichi compagni di scuola un generale inglese, Sir Horace Smith-Dorrien, affermò che occorreva prepararsi tutti "alla lotta imminente". Il giorno dopo, l'ambasciatore tedesco a Londra fu invitato al Foreign Office. La guerra era alle porte. Una percezione che non poteva non toccare anche l'Italia, che si stava apprestando a passare da un'alleanza all'altra con estrema disinvoltura, sulla base di acquisizioni territoriali per completare il disegno risorgimentale. Ne era consapevole il generale Luigi Cadorna, capo di Stato Maggiore dell’Esercito (originario di Pallanza, sul lago Maggiore) che paventava un'invasione austro-tedesca proveniente dalla Svizzera. Di qui, il suo progetto di sistema difensivo che si sarebbe realizzato con il nome di Linea Cadorna. Che cosa sarebbe diventato, lo si comprese in corso d'opera: un enorme reticolo di trincee, postazioni di artiglieria, luoghi d’avvistamento, ospedaletti, strutture logistiche e centri di comando collegate da centinaia di chilometri di strade e mulattiere, realizzato durante il periodo della Prima Guerra mondiale.[1]


Un'opera mastodontica

Sia chiaro, non vi era nulla di nuovo nelle preoccupazioni di Cadorna, se da quasi mezzo secolo erano stati redatti studi, progettazioni, ricognizioni, indagini geomorfologiche, pianificazioni strategiche e ricerche tecnologiche. Nel 1911, l'anno della guerra italo-turca e del primo grande riarmo del Regno d'Italia - per utilizzare una terminologia oggi molto in voga - erano state erette le fortificazioni sul Montorfano, a difesa degli accessi dalla Val d’Ossola e dal Lago Maggiore, e gli appostamenti per artiglieria sui monti Piambello, Scerré, Martica, Campo dei Fiori, Gino e Sighignola tra le Prealpi varesine e la comasca Val d’Intelvi. Per contrasto, anche i vicini svizzeri diedero corpo a nuove fortificazione al confine con l’Italia, realizzando opere di sbarramento a Gordola, Magadino, Monte Ceneri e sui monti di Medaglia, nel Canton Ticino. In realtà, tornando alla Linea Cadorna, all’epoca era catalogata come Frontiera Nord o, ancor meglio e per esteso, “sistema difensivo italiano alla Frontiera Nord verso la Svizzera”.

Fu un'impresa mastodontica che distrasse una percentuale importante del bilancio italiano, fresco reduce dal sostegno all'impresa contro la Turchia che sconfitta aveva ceduto la Libia, uno "scatolone di sabbia" come lo bollò Salvemini, e le isole del Dodecaneso nel mar Egeo. Ma, al termine dei lavori, il sistema difensivo dalla Val d’Ossola alla Cresta orobica, attraverso le alture a Sud del Lago di Lugano e con elementi in Val d’Aosta, comprese 72 km di trinceramenti, 88 appostamenti per batterie, di cui 11 in caverna, mq 25000 di baraccamenti, 296 km di camionabile e 398 di carrarecce o mulattiere. La spesa complessiva sostenuta, tenuto conto dei 15-20000 operai (con punte fino a trentamila, nel 1916, Ndr) che in media vi furono adibiti, può calcolarsi in circa 104 milioni». Le ristrettezze finanziarie indussero a un utilizzo oculato delle materie prime, recuperate sul territorio. [2]


Fortificazioni a difesa della Val d'Ossola

I lavori contemplarono l'apertura di cave di sabbia e si produsse calce rimettendo in funzione vecchie fornaci e furono adottati ingegnosi sistemi di canalizzazione delle acque, e ritornò prepotente il lavoro di scalpellini, boscaioli e falegnami. I requisiti per poter essere arruolati come manodopera, in quegli anni di fame e miseria, consistevano nel possedere la cittadinanza italiana, il passaporto per l’interno e i necessari certificati sanitari. L’età non doveva essere inferiore ai diciassette anni e non superiore ai sessanta, ma furono assunto per compensare i richiami alle armi, anche ragazzi con meno di 15 anni, addetti a mansioni di manovalanza, guardiania dei macchinari in dotazione nei cantieri o di addetti alle pulizie delle baracche.

La manodopera femminile, definita con apposito contratto, veniva reclutata nei paesi vicini per consentire alle donne, mentre erano impegnate in un lavoro salariato, di poter badare alla propria famiglia e occuparsi dei lavori agricoli. Il contratto era diverso a seconda dell’ente reclutante: l’amministrazione militare o le imprese private. Quello militare garantiva l’alloggiamento gratuito, il vitto (il rancio) uguale a quello delle truppe, l’assistenza sanitaria gratuita, l’assicurazione contro gli infortuni, un salario stabilito in relazione alla durata del lavoro da compiere, alle condizioni di pericolo e commisurato alla professionalità e al rendimento individuale. Il salario minimo era fissato in centesimi, da 10 a 20 l’ora per donne e ragazzi, da 30 a 40 l’ora per sterratori, manovali e braccianti. Si saliva da 40 a 50 per muratori, carpentieri, falegnami, fabbri e minatori fino a una lira per i migliori capisquadra. L’orario di lavoro era impegnativo e prevedeva dalle 6 alle 12 ore giornaliere, diurne o notturne, per tutti i giorni della settimana. [3]


Come nel Deserto dei tartari... zero invasioni

Il nemico alle porte non si vide mai. Pur tutta la durata del conflitto non si vide l'ombra di truppe dell'Impero Austro-Ungarico. Inevitabile la dismissione delle fortificazioni una volta firmato il trattato di Pace, strutture che negli anni Venti e Trenta furono utilizzate per le esercitazioni di quell'esercito di 8 milioni di baionette favoleggiato dal regime fascista. Baionette che anche nella Seconda Guerra mondiale non conobbero cimenti sulla Linea Cadorna, ad eccezione dei due tratti del Monte San Martino (nel varesotto, tra la Valcuvia e il lago Maggiore) e lungo la Val d’Ossola dove, per brevi periodi, durante la Resistenza furono utilizzati dalle formazioni partigiane.

Infine, come tutte le fortificazioni italiane non smantellate dal Trattato di pace siglato a Parigi nel febbraio 1947, a partire dai primi d’aprile del 1949 anche la “linea di difesa alla frontiera nord” entrò a far parte del Patto Atlantico istituito per fronteggiare il blocco sovietico ai tempi della guerra fredda. Volendo stabilire una data in cui ritenere conclusa la storia della Linea Cadorna, almeno dal punto di vista militare, quest’ultima può essere fissata con la caduta del muro di Berlino, il 9 novembre 1989. Da allora in poi, le trincee, le fortificazioni e le mulattiere sono state interessate da interventi di restauro conservativo realizzati dagli enti pubblici che hanno permesso di recuperarne gran parte alla fruizione turistica lungo gli itinerari segnalati.[4]

La “Cadorna” si offre oggi ai visitatori come una vera e propria “Maginot italiana”, dove è possibile vedere e studiare reperti che hanno subito l’ingiuria degli uomini e del tempo, ma non quella dirompente della guerra. Nella parte piemontese sono visitabili diversi percorsi, dal forte di Bara sopra Migiandone, nel punto più stretto del fondo valle ossolano, alle trincee del Montorfano, dalle postazioni in caverna del Monte Morissolo al fitto reticolo di trincee e postazioni di tiro dello Spalavera (la sua vetta è uno splendido belvedere sul Lago Maggiore e le grandi Alpi), per terminare con quelle della “regina del Verbano”, un monte la cui vetta oltre i duemila metri, viene ostentatamente declinata al femminile dagli alpigiani: la Zeda.[5]


Note

[1] Le riflessioni dell'autore riprendono il suo articolo pubblicato su Montagna, Annuario GISM 2025, Bradipolibri Editore S.r.l

[2] Ibidem pp.126-127

[3] Ibidem pp. 128-129

[4] Ibidem pp. 129-130

[5] Ibidem pp. 130

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