CPR: l'inadempienza dello Stato e l'ammonizione dell'Europa
- Rosanna Caraci
- 26 giu
- Tempo di lettura: 5 min
di Rosanna Caraci

Se lo Stato è inadempiente, a pagare sono i più deboli che al contrario devono essere tutelati. Questo è il paradosso inaccettabile che i centri di permanenza in attesa di rimpatrio, in Italia, presentano senza che l’opinione pubblica se ne occupi oltre l’indignazione e opinioni spesso basate sulla disinformazione.
Ben lontano da essere un fiore all’occhiello, sebbene la struttura sia stata rinnovata e la gestione sia diversa rispetto alla precedente, il CPR torinese di corso Brunelleschi resta un “non luogo” nel quale i ragazzi, il più giovane ha compiuto 18 anni a gennaio, attendono in un limbo di sapere cosa ne sarà del loro futuro .
Il caso di corso Brunelleschi a Torino
Tra gli ospiti del CPR torinese ci sono persone che arrivano dal carcere, tra i quali un ragazzo accolto con idoneità fisica al 50%, con supporto psicologico; il CPR pertanto è per loro un percorso successivo quanto inutile. Non si capisce perché, infatti, se il soggetto deve essere rimpatriato, le procedure non possano essere fatte durante il periodo di reclusione e non dopo, quando ha già scontato la pena.
Se in carcere si è reclusi per scontare una pena, in un centro di permanenza ci si finisce spesso per inadempienze burocratiche che sono in capo allo Stato inadempiente: ragazzi che hanno fatto richiesta dello status di rifugiato, alcuni hanno fatto percorsi scolastici, hanno frequentato i CPIA, lavorano in nero in attesa che lo stato agisca e che rinnovi il permesso di soggiorno.
L’ultima visita a scopo informativo, nel tempo, è stata quella di una delegazione dei consiglieri regionali del Partito democratico, venerdì 20 giugno scorso che, al termine dei loro incontri, non hanno esitato nel sottolineare come il CPR sia la rappresentazione plastica di uno Stato che fa lo struzzo, preferendo usare i muscoli anziché affrontare i problemi.
Le forze politiche di opposizione al Governo e l’associazionismo territoriale stanno facendo sentire la propria voce in dissenso con questo modello di gestione degli irregolari in attesa di rimpatrio.
A Torino è attiva la "Rete torinese contro i CPR" che si occupa di monitorare le condizioni di vita all'interno del CPR di corso Brunelleschi, promuovendo campagne informative e richiedendo la chiusura definitiva del centro. Il gruppo è nato dalla collaborazione tra Presidenza della Circoscrizione 3 della Città di Torino, CGIL, Gruppo Abele, Libera, Pastorale Migranti, ACLI, ASGI, ARCI, GrIS Piemonte, ANPI, Ufficio Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino per opporsi ai CPR, a Torino come nel resto d’Italia.
A Torino, sono stati eliminati anche i canestri da basket perché venivano usati per atti di autolesionismo. Ci sono interventi della psicologa e dello psichiatra , ma si crea una situazione evidentemente pericolosa per la salute mentale dei detenuti. Si creano situazione di limbo e di violenza psicologica insostenibili, come provato dal drammatico suicidio del giovane Moussa Balde, 23enne della Guinea, morto nel maggio del 2021 in Corso Brunelleschi a Torino, che dopo due anni di chiusura per lavori di ristrutturazione, ha riaperto nel marzo scorso. Per la morte del giovane sono a processo Annalisa Spataro e Fulvio Pitanti, rispettivamente direttrice dell'ente gestore e responsabile medico della struttura all'epoca dei fatti.
Ad oggi, nel CPR di Torino sono presenti 65 ospiti e su sei aree la metà è agibile, con una capacità di accoglienza ciascuna di 30 posti. Il 60% degli ospiti proviene dal carcere, il 40% dal territorio.
Per ciò che riguarda la possibilità di comunicazione con l’esterno, agli ospiti i telefoni vengono forniti dal CPR, il regolamento nazionale non lo prevede. Inizialmente erano stati proposti 150 telefoni, attualmente ne sono disponibili 5-6 per area e si possono utilizzare tra le 9 e le 12 e tra le 14 e le 18. Dopo l’orario, i telefoni vengono ritirati.
Un sistema repressivo, secondo Bruxelles
E’ da sottolineare che ogni CPR si regola in modo diverso. In estate molti dormono all’aperto, nonostante le stanze siano climatizzate, si coricano alle 4:30 dopo le preghiere, sveglia alle 10 per colazione e visite mentre la giornata attiva inizia verso le 17, dopo il caldo, con attività di giochi di carte, calcio, disegno e acquerelli che, sebbene ci sia all’inizio una diffidenza raccolgono una buona partecipazione. In mensa è presente una TV e il cibo dovrebbe essere consumato in mensa, ma in pratica ognuno mangia dove preferisce. La dieta è rispettosa delle culture: no carne di maiale, menù speciale per la festa islamica dell’agnello e quelli più apprezzati sono i pasti a base di riso, pollo, pesce.
All’ingresso vengono ritirati denaro, telefoni e oggetti di valore ma è possibile ricevere bonifici su un conto dedicato. Esiste una lista della spesa per acquisti interni, pagati con soldi custoditi in cassaforte. E’ inoltre previsto un pocket money che conta di 2,50 € al giorno. Se non speso, l’intera somma viene restituita alla fine della permanenza, dopo 18 mesi. A sorvegliare sulla sicurezza ci sono 15 militari per la vigilanza, il perimetro interno controllato dall’Esercito mentre quello esterno è presidiato da Carabinieri e Guardia di Finanza fino alle 20:00 e dopo dalla Polizia di Stato.
Il sistema italiano dei CPR si configura come uno dei più repressivi in Europa. Il Comitato per la Prevenzione della Tortura (CPT) ha denunciato carenze strutturali, norme di sicurezza eccessive, mancanza di attività ricreative e discrepanze nell’assistenza sanitaria. È emerso l’uso di psicofarmaci somministrati senza prescrizione né consenso informato, pesticidi sedativi spesso diluiti nell’acqua, con effetti disorientanti sui detenuti .
La medicalizzazione forzata, la carenza di controlli e trasparenza, e la gestione privatizzata rendono il CPR un modello inefficace e lesivo della dignità umana e sono concepiti come “centri di sicurezza” più che di accoglienza. Quello trascorso all’interno di quelli che Ong come CILD definiscono “buchi neri” che violano diritti fondamentali è un tempo cristallizzato e vuoto. Comportano un elevato costo pubblico senza aumentare il tasso di rimpatri (meno del 50 % nel 2022) .
L’ incertezza nei percorsi di regolarizzazione, l’arresto in sostituzione dell’agire dei diritti, creano possibili focolai di insicurezza sociale consegnando queste persone alla criminalità organizzata, al disagio mentale, all’esclusione. L’esatto contrario di ciò che uno Stato che funziona dovrebbe fare, soprattutto quando si tratta di persone molto giovani. Per questo la Rete contro i CPR chiede la fine della detenzione amministrativa e la chiusura dei centri, puntando a una maggiore tutela dei diritti dei migranti e a una riflessione più ampia sul sistema di accoglienza e rimpatrio.
Parlando di costi dei CPR in Italia, tra il 2018 e il 2023 il sistema ha drenato oltre 92 milioni di euro, con costi annui di almeno 1,6 milioni per struttura e spese fino a 71.000 euro all’anno per ospite in centri piccoli come Brindisi . Il costo per singolo trattenuto varia tra 30 e 42 € al giorno, con rimpatri via charter che non aumentano i risultati di espulsione. Soldi che potrebbero essere investiti per progetti territoriali destinati a “occupare” questi giovani in attesa della regolarizzazione della loro posizione, conservandone la dignità.
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