Tra Israele e Iran il dramma del popolo palestinese a Gaza
- Stefano Marengo
- 13 giu
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di Stefano Marengo

L’ex generale americano Wesley Clark ha da tempo rivelato come, nei mesi convulsi successivi all’11 settembre 2001, mentre l’aviazione USA già stava bombardando l’Afghanistan, fu messo a parte del piano dell’amministrazione Bush di intraprendere “sette guerre in cinque anni” contro Iraq, Libano, Siria, Libia, Somalia, Sudan, per finire con l’Iran.[1] L’obiettivo di “regime change” in tutti questi paesi era un prodotto della dottrina neocon, per la quale era necessario destabilizzare buona parte del Medio Oriente e del Nord Africa e ridisegnare le geografie del potere in quei territori secondo gli interessi statunitensi. La posta in gioco, secondo i falchi di Washington, era nientemeno che l’inizio di un “nuovo secolo americano” proprio nel momento in cui nuove potenze come la Cina iniziavano ad affermarsi nel Sud globale.
La dottrina neocon americana
Sappiamo bene come sono finite le guerre in Afghanistan e in Iraq, e altrettanto bene conosciamo le conseguenze dell’aver devastato Libia, Siria e Sudan, pur senza alcuna formale invasione via terra. Il fallimento nell’utilizzo dell’hard power ha di fatto compromesso anche il soft power di cui gli USA potevano disporre, una circostanza che, sommata alle enormi quantità di denaro sprecate in quei conflitti, ha favorito anziché rallentare l’emergere di nuove potenze. Proprio per questa ragione, pur rimanendo la dottrina neocon fortemente radicata nelle élites politiche sia repubblicane che democratiche, Washington ha scelto di evitare uno scontro diretto con l’Iran, e questo, pur tra alti e bassi, fino al punto di intavolare negoziati per lo sviluppo del nucleare ad usi civili da parte di Teheran.
La storia potrebbe considerarsi chiusa qui, ma bisogna tenere conto di una variabile fondamentale: Israele. Come ricordano diversi analisti – penso soprattutto a Jeffrey Sachs – le “sette guerre” programmate dagli Stati Uniti erano in buona parte sostenute, anzi esplicitamente richieste da Tel Aviv. Nel luglio del 1996, in occasione del suo primo discorso al Congresso di Washington, Netanyahu formulò precisi capi d’accusa contro Libano, Siria ed Iraq, ma soprattutto contro l’Iran: “Il più pericoloso di questi regimi è quello iraniano, disse il già allora Primo Ministro di Israele. Se questo regime o il suo dispotico vicino Iraq dovessero acquisire armi nucleari, ciò potrebbe presagire conseguenze catastrofiche non solo per il mio paese e non solo per il Medio Oriente, ma per tutta l'umanità. Credo che la comunità internazionale debba rinnovare i propri sforzi per isolare questi regimi e impedire loro di acquisire il potere atomico. Gli Stati Uniti e Israele sono stati in prima linea in questo sforzo. Ma possiamo e dobbiamo fare molto di più”[2].
Le "rimasticazioni" politiche di Netanyahu
Nonostante siano passati quasi trent’anni – trent’anni di falsità sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, trent’anni di precari accordi con il regime clericale dell’Iran sempre compromessi da Tel Aviv e dai suoi alleati di Washington, ma soprattutto trent’anni di sangue e distruzione in tutto il Medio Oriente – Netanyahu, rimasticando sempre le stesse accuse, appare ancora di più intenzionato a trascinare gli Stati Uniti in un conflitto aperto contro Teheran. La novità è che oggi persegue il suo disegno forzando ancora di più la mano, ossia ignorando la richiesta americana di non intraprendere alcuna azione militare fino al termine della seconda sessione di negoziati USA-Iran sul nucleare.
L’Iran degli ayatollah per Israele è una vera e propria ossessione, non però per le ragioni che vengono dette. In effetti, visto che l’unica potenza atomica della regione è proprio Israele, appare quantomeno propagandistico il fatto che Tel Aviv continui a denunciare l’inesistente “minaccia atomica iraniana”. E allora, molto più realisticamente, l’obiettivo israeliano non è difensivo, ma di natura offensiva e volto a ridefinire gli equilibri geostrategici del Medio Oriente. Infatti, pur disponendo di un arsenale convenzionale, Teheran è oggi l’unico serio contendente per esercitare egemonia nella regione. Ne viene che, se l’Iran venisse ridimensionato con una guerra, Tel Aviv si imporrebbe come dominus politico-militare, e a quel punto anche la normalizzazione dei rapporti con i paesi arabi, in primo luogo con l’Arabia Saudita, procederebbe di conseguenza.
Se questa strategia, in astratto, non è priva di logica, nel concreto appare decisamente folle. Come si può anche solo lontanamente credere che Israele, pur con il coinvolgimento USA, possa aver ragione dell’Iran quando in ben venti mesi non è riuscito a sconfiggere né la resistenza palestinese, né Hezbollah in Libano, né Ansarallah in Yemen? La risposta appare francamente scontata. Il che lascia intravedere i due reali obiettivi non dichiarati che Netanyahu intende perseguire a breve e medio termine utilizzando il conflitto con Teheran come un pretesto.
Gli obiettivi di Tel Aviv
Il primo obiettivo è quello di rinsaldare il suo potere all’interno di Israele, che mai come oggi appare pericolante anche a causa della mozione di sfiducia che pende sul governo da parte della destra religiosa ultraortodossa. Di fronte a tale rischio è piuttosto chiaro che un conflitto con l’Iran garantirebbe al premier un potere pressoché assoluto per affrontare lo “stato di emergenza”.
Ma una guerra di quella portata costituirebbe anche una cortina fumogena al riparo della quale Israele potrebbe procedere speditamente con il genocidio e la pulizia etnica della popolazione palestinese e l’annessione di nuove terre. Non è un caso che proprio nell’imminenza dell’attacco all’Iran, Gaza sia stata definitivamente isolata dal mondo con la distruzione delle residue infrastrutture telematiche. In altre parole, nei prossimi giorni sarà per tutti noi pressocché impossibile vedere le immagini che documentano gli orrori in corso nella Striscia, e questo consentirà alle truppe di occupazione israeliane di agire con ancora maggior ferocia che in passato. Allo stesso modo, non è un caso che subito dopo il bombardamento dell’Iran, Israele abbia posto sotto assedio totale, “fino a nuovo ordine”, l’intera Cisgiordania. Una decisione che arriva a poche settimane dall’annuncio della costruzione di 22 nuovi insediamenti coloniali in quella che il governo di Tel Aviv ha definito “la più grande espansione [ossia annessione] degli ultimi decenni”.[3]
Le crepe all'interno delle élites israeliane
L’aggressione all’Iran risponde quindi a questi calcoli espansionistici, e solo in subordine a una logica di dominio regionale. Rimane tuttavia il fatto che un conflitto con Teheran, qualora dovesse coinvolgere direttamente anche gli Stati Uniti, non rimarrebbe una guerra isolata, ma chiamerebbe in causa potenze come Russia e Cina che, a più vario titolo e per i loro interessi nell’area, di certo non abbandonerebbero l’Iran. Netanyahu conosce bene questo scenario e tuttavia non appare affatto intenzionato a tirarsi fuori dalla spirale dell'escalation.
L’atteggiamento del governo di Tel Aviv sta tuttavia producendo crepe profonde all’interno delle stesse élites israeliane. Porzioni significative degli apparati di stato (essenzialmente forze armate e servizi segreti) considerano quella di Netanyahu una strategia suicida. A questo riguardo, è più che probabile che siano stati alti funzionari del Mossad a passare a Teheran i documenti sensibili sul nucleare israeliano, dando agli iraniani uno strumento in più di deterrenza. Si tratta di una "mossa del cavallo" che, però, non è affatto detto che possa funzionare. Anzi, a dirla tutta, oggi più che mai appare come una mossa della disperazione.
In tutto ciò rimane un’unica certezza, a cui ognuno può associare l'aggettivo che meglio ritiene: quello a cui stiamo assistendo a Gaza e in Cisgiordania è lo sterminio e la pulizia etnica di un popolo.
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