Osservando i nostri tempi
- Domenico Cravero
- 17 ore fa
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La violenza, malessere sociale e individuale
di Domenico Cravero

La violenza in tutte le sue espressioni, verso le cose (teppismo) come verso gli altri (bullismo), nell'aggregazioni sportive (tra le tifoserie e negli stadi) come nella competizione (il doping), nel divertimento e nella vita sociale, in famiglia e nella coppia, velocità ossessiva di oggi, è sempre il segno di una condizione di malessere, radicata nell'isolamento e nella paura dell'altro. L’individuo diventa persona solo nella certezza affettiva. In caso contrario, non trova scampo all’angoscia (come nel dolore mentale o negli agiti violenti) oppure si lascia inglobare nel Noi anonimo della massa (come nelle dipendenze o nella distruttività del bullismo).
Sono due le esperienze che permettono all’Io di sussistere e di accrescersi: l’attaccamento e la separazione, il legame affettivo ed emozionale e la volontà di autonomia e di autoaffermazione. L’Io persegue l’accrescimento della sue forme vitali: cerca dipendenza e gratificazione (il legame con la Madre) l’affermazione di sé e l’identità sociale (il rapporto con il Padre – intesi come codici). La vita concreta obbliga però a ridimensionare pulsioni e desideri. Il quotidiano alimenta quindi sia la delusione delle frustrazioni, sia lo sforzo della conquista. L’Io viene riportato costantemente alla sua realtà: il limite, l’insufficienza, l’ostacolo.
Il desiderio nella sua realizzazione concreta è coartato, frustrato, rimosso. Sperimenta rifiuto, non amore, abbandono, paura di morire. Si genera l’oscura esperienza dell’angoscia che trasforma in dinamiche distruttive, non più unificate, quanto era potenziale di crescita. Appare la realtà temuta del non-amore, del non-senso dell’esistere, della vulnerabilità. Si aprono due possibili percorsi: la depressione (la resa dell’Io) e la violenza (il rifiuto della realtà). L’agito aggressivo è una difesa estrema per l’Io. L’angoscia può essere invece “manifestata”: detta, raccontata nella comunicazione confidenziale, nella relazione d’aiuto, nella pratica clinica, nel progetto di vita, nell’azione sociale. Nella misura in cui la consapevolezza dell’angoscia emerge, si può intraprendere un percorso di cambiamento. Rinunciando al godimento pulsionale immediato (l’”agito”), la vita umana si eleva acquisendo un significato, un senso spirituale. Esso consiste nel porre la rinuncia stessa come meta paradossale della pulsione: fare della Legge (la rinuncia) una modalità di godimento della pulsione (l’autostima) e non una rimozione del piacere ma una trasposizione.
Il percorso normativo che favorisce questo processo è la funzione del Padre (categoria da intendere oggi come relativamente indipendente dal maschile/femminile) alla quale Freud assegnava il doppio compito di introdurre la Legge che limita il godimento e di offrire se stesso come modello ideale. Il dolore mentale, secondo i contributi più rilevanti della psicanalisi si può concentrare attorno al nucleo incandescente della storia evolutiva che è il narcisismo. Il piacere è la forza creativa della vita; per questo, non è dissociato dall’amore. Si viene al mondo da un atto d’amore, si cresce sani e felici per l’amore ricevuto e donato.
Il volto della Madre è infatti il luogo simbolico del piacere e del desiderio. Senza l’attaccamento materno il bambino non accede alla consapevolezza di esistere e di valere. Ogni forma vitale affonda le radici nel piacere affettivo (nella sua attesa, la sua nostalgia o la sua illusione). I problemi dell’umano probabilmente non si porrebbero se si potesse vivere in una condizione di fusione primaria. In quel paradiso fantasmatico non ci sarebbe però che l’indistinto. Nella simbiosi materna il bambino si percepisce come “il solo”, l’unico. L’illusione tuttavia è di breve durata. Non potrà possedere la Madre. Non potrà sempre stare tra le sua braccia; dovrà imparare a camminare da solo. Dovrà smettere di pensarsi il solo, dovrà accettare di stare anche “solo”. Dovrà superare la dinamica capricciosa della pretesa e dell’esclusività e imparare a “fare da solo”. Riconoscerà così che la Madre non è sempre disponibile e che non è lui che la crea.
Esiste anche il Padre: una solitudine liberatoria che contraddistingue l’umano. Se il bambino non impara a riconoscere l’Altro, non potrà essere se stesso. L’Altro resterà sempre colui che estorce il diritto di essere l’unico. L’angoscia prodotta dalla separazione può essere gradualmente sostituita dal piacere di apprendere nuove esperienze esplorando il mondo. L’esperienza umana si fonda così sul paradosso del “Bene assoluto” (il narcisismo primario dell’Unico) che permette di accettare la relatività della propria posizione (la graduale autonomia del “fare da solo”).
In questo paradosso si guadagna la liberazione dal narcisismo attraverso l’esperienza decisiva dell’“essere soli con l’altro” (D. Winnicott). Il bambino impara ad amare la madre, a smettere di “poppare” e a dire “mamma!” (altruismo), solo perché inizialmente ha potuto considerarla estensione di sé (egocentrismo). Solo chi ha avuto in “giusta quantità” il narcisismo primario vi può rinunciare in parte (narcisismo secondario), per entrare in rapporto con gli altri riconosciuti. Più si sale in narcisismo, tuttavia, più si perde il contatto con il reale, fino alla frattura e al disconoscimento (come nella psicosi). Senza il concetto di “pulsione di morte” non si spiegherebbe, infatti, la dinamica del narcisismo. Sentirsi “unici” fa percepire il piacere di vivere; un suo eccesso invece porta alla morte. Nel narcisismo non c’è distinzione tra Sé e l’Altro: l’Io si auto-riferisce.
In questo esubero, lo spazio per riconoscere l’Altro è compromesso o limitato. Il bambino accetta l’esistenza della Madre, altro da sé, perché è stato da lei resto talmente onnipotente da ritenere che ella sia una parte di sé, che risponde ai suoi comandi. Se eccede nell’attaccamento si condanna a una vita piena di narcisismo. Il bisogno non potrebbe essere trasformato in desiderio. Non godendone al momento giusto, non imparerebbe a ridurlo. Il difetto di narcisismo primario non permette ai ragazzi violenti di pensarsi modificabili. Non riescono ad accedere alle rappresentazioni di un mondo rappresentabile. Senza il giusto equilibrio di Madre e Padre non si diventa auto-nomi: capaci di darsi liberamente una Legge.













































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