Il linguaggio del rispetto verso il femminile e contro la violenza
- Rosanna Caraci
- 20 ore fa
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Aggiornamento: 2 ore fa
Se ne discute domani in un convegno a Torino, in Borgo San Paolo
di Rosanna Caraci

Non è solo questione di semplice declinazione al femminile. Le parole sono l’architettura invisibile che modella ciò che vediamo, ciò che accettiamo e ciò che consideriamo “normale”. È una consapevolezza che l’Italia possiede da quando, nel 1987, Alma Sabatini pubblicò il testo fondamentale quanto rivoluzionario “Il sessismo nella lingua italiana”, commissionato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, in cui indicava con chiarezza come il linguaggio contribuisca a creare e consolidare stereotipi di genere. Quasi quarant’anni dopo, quel lavoro rimane di riferimento, quindi non ancora superato nonostante le generazioni trascorse nel frattempo. Purtroppo, gran parte delle sue indicazioni non è mai entrata pienamente nell’uso comune.
È da questa constatazione che nasce “La grammatica del rispetto”, il convegno che si terrà il 21 novembre a Torino, alle ore 21 in via Millio 20, nel contesto della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Un incontro che metterà a confronto Francesca Troise, presidente della Circoscrizione 3, Maria Grazia Grippo, presidente del Consiglio comunale di Torino e la vicepresidente Ludovica Cioria, le consigliere regionali PD Nadia Conticelli, che è anche presidente regionale del partito e Laura Pompeo, responsabile pari opportunità del PD metropolitano, l’avvocata Silvia Lorenzino, portavoce Democratiche Torino.
Incipit dell’incontro, volute dal Circolo “Carpanini” Pd di Torino, è la certezza che la violenza sia antecedente a gesto: lo sia nelle parole che usiamo per descrivere le donne, la loro autorità, il loro ruolo nella società.
Il lessico quotidiano italiano resta ancora intriso di stereotipi. Termini come “zitella”, “isterica”, “racchia”, “gattamorta”, “femminuccia”, “donnina”, “poco di buono” o espressioni paternalistiche come “le donne sono complicate” costituiscono un repertorio linguistico che banalizza, infantilizza o colpevolizza. Non sono “solo parole”: sono categorie che ordinano il pensiero. Se una donna assertiva è “isterica”, mentre un uomo assertivo è “determinato”, significa che il linguaggio sta disegnando uno squilibrio di autorevolezza. E quello squilibrio è pronto a preparare il terreno alla discriminazione.

Il confronto con l’estero è illuminante. In diversi Paesi europei, le istituzioni hanno compreso da tempo il ruolo del linguaggio come strumento di parità. Spagna e Francia hanno introdotto linee guida ufficiali che rendono l’uso dei femminili professionali una prassi consolidata. Ministras, consejeras, ingénieures non sono eccezioni, ma forme normali. La Germania sperimenta da anni strategie linguistiche inclusive; i Paesi nordici integrano il linguaggio paritario nei servizi pubblici, nelle scuole, nei media.
Oltreoceano, il quadro non è meno netto. L’Australia ha adottato direttive nazionali molto chiare sul linguaggio inclusivo in ambito istituzionale e mediatico. Negli Stati Uniti, pur in assenza di una norma federale, università, redazioni giornalistiche e aziende hanno sviluppato codici interni che scoraggiano infantilizzazioni (“girl” per indicare donne adulte), commenti sessisti sul corpo e rappresentazioni stereotipate.
L’Italia, invece, procede a macchia di leopardo. Esistono amministrazioni, università e professionisti che applicano rigorosamente le raccomandazioni, ma la cultura generale resta divisiva. I femminili professionali - sindaca, avvocata, assessora, ingegnera - sono spesso derisi o contestati come “mode”, “forzature”, “eccessi ideologici”. Un segno evidente del ritardo culturale che ancora separa il Paese dal resto dell’Occidente avanzato.
Il linguaggio non si limita a descrivere la realtà: la crea. La ricerca internazionale è concorde nel mostrare come la rappresentazione verbale influenzi la percezione sociale. Se la narrazione delle donne nei media è costantemente associata alla fragilità o alla colpa, quando una donna subisce violenza la società sarà meno incline a riconoscerne la credibilità. È un meccanismo che conosciamo: se un femminicidio diventa “raptus”, se l’aggressore è vittima di “troppo amore”, se la relazione violenta viene definita “tempestosa”, la responsabilità si sposta. La cornice linguistica attenua il reato e rigira il peso sulla vittima.
È proprio per spezzare questa catena che il convegno torinese vuole rimettere il linguaggio al centro del dibattito pubblico. Non si tratta di “politicamente corretto”, ma di responsabilità culturale. Il linguaggio è la prima infrastruttura della civiltà: se quella infrastruttura è distorta, traballante o costruita su stereotipi, tutto il resto - legalità, prevenzione, educazione - poggia su fondamenta fragili.
Il lavoro da fare, oggi, è ancora enorme. Servono linee guida nazionali che unifichino le prassi nelle istituzioni; servono programmi di formazione obbligatoria per scuole, forze dell’ordine, operatori sanitari e giudiziari; serve un patto con i media per porre fine alle narrazioni che romanticizzano la violenza; serve un’assunzione di responsabilità da parte della politica, che troppo spesso usa essa stessa linguaggi ostili.
“La grammatica del rispetto” non è dunque un titolo evocativo: è un progetto culturale. È la consapevolezza che la parità non si realizza solo con le leggi, ma con ciò che diciamo ogni giorno. Con le parole che scegliamo. Con quelle che scartiamo. Con quelle che restituiscono dignità e non la tolgono.
La rivoluzione, ancora una volta, comincia dalla lingua. E non potrebbe esserci un momento più urgente per iniziarla.













































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