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Proviamo a fare la pace per la pace e non la guerra per la pace

di Michele Ruggiero|

Il liberale Stuart Mill, uno dei massimi filosofi del XIX secolo e teorico dell’utilitarismo, scrisse che “L’uomo può raddrizzare i suoi errori per mezzo dell’esperienza e della discussione, ma non della solo esperienza, occorre anche la discussione per mostrare come l’esperienza può essere interpretata”. La guerra in Ucraina e l’unilateralismo con cui la si guarda sotto il profilo di politica internazionale sembrano procedere esattamente nella direzione contraria agli auspici del sensibile Mill, noto per essere stato tra i primi a chiedere l’estensione del voto alle donne negli anni Trenta dell’Ottocento. Non a caso, si continua a perseguire nella prassi e nella volontà la politica del sostegno militare (armamenti) all’esercito ucraino, mentre si spegne progressivamente l’eco del primato della diplomazia, questa scaduta ai minimi sindacali anche con l’uscita di scena dell’Onu, che di conflitto in conflitto e di Risoluzione in Risoluzione, mostra la sua debolezza rispetto ai problemi del mondo. Esattamente, e qui ci soccorre l’esperienza, come accadde negli anni Trenta del Novecento, ritornando sulla parabola discendente della Società delle Nazioni ispirata dal presidente americano Wilson. Se non si torna a discutere con spirito libero, franco, umile nel riconoscere che la democrazia esige passaggi che non possono essere eseguiti al tempo di uno spartito identico per tutti, difficilmente quell’esperienza potrà essere interpretata nell’interesse comune. Tutto rischia di essere vano. A meno che l’interesse comune non debba sostanzialmente coincidere sempre con quella parte del mondo che ha stabilito di possedere erga omnes il primato politico, economico, scientifico, militare, religioso, culturale e intellettuale. Contro cui Putin, com’è noto, lancia i suoi strali verbali, mentre nel concreto bombarda l’Ucraina. Del resto, il meccanismo della convivenza civile privilegiato da entrambi le parti si fonda sul principio della guerra per preparare la pace. Un esercizio muscolare che da tempo immemorabile trova i suoi primi estimatori nelle aziende dell’apparato militare-finanziario che grazie alle commesse di guerra possono riempire ciclicamente gli arsenali, mentre i contribuenti pagano con l’arretramento del sistema del Welfare (pandemia docet). L’Occidente lo ha dimostrato con le sue guerre mai risolutive (se non per gli accaparramenti delle risorse locali) in Centro Asia (Iraq, Afghanistan), nell’Africa rivierasca (Libia) e in altri teatri geopolitici dove è preminente l’interesse economico. Il presidente russo non è da meno e persevera i suoi disegni con l’appoggio di altri attori, più o meno grandi, dalla Cina alla Turchia e Israele, in uno scenario in cui l’ideologia è stata superata di gran carriera e dunque anche il concetto di Guerra Fredda. Ma nello scacchiere di alleanze di convenienza, come insegna l’esperienza storica, vi è sempre un punto fermo e inamovibile per ogni nazione. La Russia ha il suo punto inamovibile nei suoi confini che gli deriva dall’esperienza delle aggressioni subite sul suolo patrio. È il vulnus di quel popolo su cui Putin ha concentrato la parte centrale del suo discorso con cui ha annunciato la guerra contro l’Ucraina. Passaggi da non sottovalutare perché sono la bandiera della Russia e non mera propaganda, di cui l’Occidente – e in particolare l’Europa sempre più ai margini della questione – dovrebbe (ri)provare a discutere, anche nell’interesse dell’Ucraina. E non con le parole della vice presidente americana Kamal Harris che da Bucarest ha ammonito: “2.000 soldati Usa a pronti a difendere la Nato”. L’Alleanza atlantica forse è già sotto attacco? L’unico a primeggiare nel consesso internazionale con lucidità, animato da autentico spirito cristiano, rimane così papa Francesco: una voce solitaria che propende a ricercare la pace per fare la pace. Dunque, quanto di più distante dal motto latino che furoreggia nei salotti dell’informazione e negli stati maggiori degli eserciti, secondo cui, come abbiamo ricordato sopra, si fa la guerra per preparare la pace. Pensiero antico e in parte obsoleto, cui si dà un credito smentito dalla realtà: nell’arco di duemila anni si è passati dal gladio ai missili e dal giavellotto alle testate nucleari. Un balzo tecnologico che dovrebbe farci riflettere, in primo luogo, su quale pace sarebbe ancora possibile nel mondo dopo la pioggia di atomiche sulle nostre teste. Non per questo, si è disposti ad assecondare la guerra convenzionale che distrugge Kiev e altre città ucraine. In questo caso, però, l’esperienza dovrebbe essere preceduta dal dialogo, dal confronto o da ciò che Mills chiamava appunto discussione. La ragione è semplice: l’esperienza nucleare potrebbe rivelarsi una guerra decisamente troppo “igienica” per il mondo, più di quanto si auspicassero gli stessi futuristi di Marinetti ideatori dello slogan militarista.

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