Le verità dell'Istat. Italia vecchia e abbandonata dai giovani: c'è un futuro oltre la propaganda?
- Ferruccio Marengo
- 7 mag
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di Ferruccio Marengo

Il Rapporto Istat sugli indicatori demografici del 2024[1], pubblicato a marzo scorso, attesta che nell’anno appena passato il tasso di fecondità delle donne italiane e, insieme con esso, il tasso di natalità, si è ulteriormente ridotto. Si è pertanto rafforzata la tendenza, già in atto da qualche anno, alla riduzione della popolazione: nel 2024, a fronte di 651mila decessi, sono nati 370mila bambini (circa 10mila meno dell’anno precedente), con un saldo naturale negativo (-281mila) compensato solo in parte dal saldo migratorio (+244mila). Nello stesso tempo, la popolazione italiana è ulteriormente invecchiata e, con l’invecchiamento, si sono rafforzate le condizioni per una più marcata riduzione della natalità. Si alimenta così una ‘spirale’ demografica negativa, che porta alla progressiva riduzione della popolazione e a squilibri crescenti tra la parte attiva e quella non attiva della popolazione stessa.
Per interrompere questa spirale occorre agire per modificare l’andamento delle due variabili in gioco. Occorre, cioè, contrastare la tendenza alla decrescita del tasso di fecondità o accrescere il saldo migratorio già oggi positivo (o, meglio ancora, migliorare lo stato di entrambe le variabili). Con questi presupposti, il tasso di natalità che continua a ridursi e l'aumenta dei giovani che scelgono di cercare lavoro all’estero, è ancora possibile immaginare un futuro per il nostro Paese?
Figli sempre più in età avanzata
Il grado di fecondità dipende da un ampio insieme di fattori spesso interconnessi tra loro, che vanno dal reddito delle famiglie, alla disponibilità di servizi per l’infanzia, alla ripartizione dei compiti di cura all’interno della famiglia, alle aspettative che le famiglie stesse hanno verso il futuro. Esiste inoltre una correlazione tra tasso fecondità (il numero medio di figli per donna) e l’età media del parto (che in Italia, nel 2024, è stata di 32,6 anni) poiché, posticipando l’età media del parto, si riduce la ‘finestra’ temporale della fertilità, e quindi la possibilità di mettere al mondo un buon numero di figli. Occorre dunque, in questo caso, interrogarsi sulle ragioni che spingono le famiglie italiane ad avere figli in età sempre più avanzata. Se si tralascia l’ipotesi che ciò avvenga perché i potenziali genitori ‘vogliono godersi più a lungo la vita’ – ipotesi che, oltre a non essere confermata da elementi di fatto, è espressione di un’idea ‘misera’ della genitorialità – non rimane che volgere l’attenzione alla ricerca delle cause esterne alla volontà dei singoli e delle famiglie, che favoriscono (qualche volta impongono) lo spostamento sempre più in là nel tempo della decisione di avere figli. E non c’è dubbio che, tra queste cause un peso non marginale lo abbiano le condizioni di insicurezza e precarietà del lavoro, che influenzano, oltre al reddito, la possibilità di molte famiglie di guardare con relativa tranquillità al loro futuro.
Cresce l'emigrazione giovanile
Sul versante migratorio, il dato più sorprendente (e preoccupante) che emerge dal Rapporto Istat non è quello riguardante al flusso di immigrati nel nostro Paese, in lieve riduzione rispetto al 2023, ma il numero di cittadini italiani che ogni anno si trasferiscono in paesi stranieri, che nel 2024 sono stati 154mila, con un aumento di oltre il 36 per cento rispetto all’anno precedente. Si tratta di un flusso alimentato in grandissima parte da giovani provenienti dalle Regioni del Nord e del Centro, dotati di un alto grado d’istruzione (circa la metà sono laureati). Le ragioni che li spingono a ‘cercare fortuna’ all’estero sono note: la difficoltà di trovare in Italia un lavoro stabile, di vedere riconosciute le loro competenze, di crescere professionalmente e migliorare la loro posizione lavorativa, di ottenere retribuzioni reali allineate con quelle degli altri grandi Paesi europei. In sintesi: un numero crescente di giovani italiani ritiene che il nostro Paese non sia il luogo nel quale valga la pena di rimanere e investire per il futuro, e hanno per questo deciso di lasciarlo.
A partire dagli ultimi anni del Novecento, sono state adottate in Italia decine di misure volte a ‘flessibilizzare’ il lavoro e ridurne il costo reale. Questo – si diceva – era il prezzo da pagare per incrementare il tasso di produttività, battere la concorrenza internazionale e, grazie a ciò, aumentare l’occupazione. Dopo un quarto di secolo, al netto delle oscillazioni dell’economia internazionale, è difficile negare, dati alla mano, che queste scelte si siano rivelate fallimentari. Nel nostro Paese, dal 2000 al 2024, il tasso di occupazione è cresciuto in misura molto contenuta e comunque meno che negli altri grandi paesi europei; nello stesso tempo, i lavoratori con contratto a termine sono passati da 1,5 a 2,7 milioni e quelli ‘intrappolati’ in part-time involontari sono saliti da 705 mila a 2,3 milioni.
Bassi salari: più lavoratori a rischio povertà
Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro[2], dal 2008 a oggi la produttività media è scesa in Italia del 3 per cento, mentre quella degli altri paesi ad alto reddito è cresciuta del 29. Nello stesso periodo, i salari reali medi degli italiani sono diminuiti del 5 per cento, a fronte di un aumento, negli altri paesi ‘ricchi’, del 15 per cento. La contrazione dei salari, resa più acuta negli ultimi anni dalla ripresa dell’inflazione, ha aumentato il rischio di povertà anche per chi lavora: nel biennio 2022-23 i lavoratori dipendenti in condizioni di povertà sono saliti dal 5 all’8,2 per cento.[3]
La scelta, non nuova per l’Italia, di fare leva sulla riduzione del costo reale del lavoro e sulla sua ‘flessibilizzazione’, anziché sulla crescita di investimenti e innovazione, si è rivelata un boomerang che ha impoverito e accentuato l’incertezza delle famiglie verso il futuro, senza accrescere la capacità competitiva del nostro Paese. Non da ultimo, ha spinto – e continua a spingere, in quantità crescente – i nostri giovani più preparati a cercare all’estero migliori condizioni di lavoro e di reddito. Non è frequente imbattersi in un caso tanto evidente di eterogenesi dei fini, un caso, cioè, nel quale le scelte compiute hanno prodotto risultati non soltanto inattesi, ma del tutto opposti a quelli che s’intendevano perseguire. È arrivata l’ora di cambiare radicalmente strada.
Note
[1] ISTAT, Rapporto sugli indicatori demografici 2024, Marzo 2025
[2] ILO, Rapporto mondiale sui salari 2024-2025. Le tendenze dei salari e delle
disuguaglianze salariali in Italia e nel mondo. Roma: Ufficio internazionale del lavoro, 2025
[3] ISTAT, Rapporto sulle condizioni di vita e reddito delle famiglie 2023-2024, Marzo 2025
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