Migranti: il blocco navale non è "l'uovo di Colombo"
di Marco Bandioli*
Uno scafo con a bordo che 53 migranti è affondato ieri sera a poche centinaia di metri dalla costa di Lampedusa, davanti a Capo Ponente. Il bilancio è al momento di otto dispersi, tra cui due bambini; 45 i superstiti. Purtroppo tra loro c'era anche una bambina di due anni che non è sopravvissuta durante il trasporto a terra sulla motovedetta della Capitaneria. In totale, si sono registrati ieri12 sbarchi per un totale di 1.087 persone. Di rilievo, il soccorso prestato dalla Guardia costiera e dalla Guardia di Finanza a un peschereccio salpato domenica sera da Zuara in Libia con a bordo 576 migranti, originari di Egitto, Siria, Iraq, Marocco, Pakistan e Bangladesh. Poco dopo è sbarcato a molo Favarolo un altro gruppo composto di 43 gambiani, guineani, malesi e senegalesi partito sempre domenica sera da Sfax in Tunisia.
La nuova ondata di sbarchi a Lampedusa è destinata inevitabilmente a riaccendere con tutto il suo strascico di polemiche i riflettori sulla gestione dei migranti e, in particolare, sui deterrenti per fermare le migrazioni che negli ultimi mesi si sono affacciati nel dibattito politico. Tra questi il "blocco navale", spesso presentato come il classico "uovo di Colombo" di facile applicazione. Una visione ancorché semplicistica, estremamente superficiale per le implicazioni complesse di ordine giuridico e pratico che impone, come ci spiega Marco Bandioli nel suo articolo che affronta nella sua prima parte il tema delle interdizioni marittime strettamente connesso al blocco navale. .
Chiunque voglia inserirsi professionalmente in questioni o attività che riguardino il cosiddetto “mondo marittimo” si trova necessariamente a dover conoscere un ragguardevole numero di leggi, trattati, accordi, convenzioni, iniziative, codici, norme, normative, consuetudini, risoluzioni, direttive, circolari e regolamenti applicativi che sono stati emanati negli ultimi 30 anni per fornire una base giuridica e legale agli argomenti più disparati che riguardano le numerosissime attività che si svolgono, accadono o potrebbero accadere in mare. Districarsi in questa enorme e noiosissima produzione di “documentazione tecnico-burocratica” non è mai semplice e diversi argomenti, di portata veramente enciclopedica, devono essere talvolta necessariamente affrontati con un certo pragmatismo per favorirne una semplificazione, che non deve essere confusa con una voluta approssimazione.
Tanto premesso, è opportuno osservare che i vari conflitti armati che sono accaduti negli ultimi decenni si sono materializzati seguendo quasi sempre un naturale “processo evolutivo” di situazioni che producono uno “Stato di Tensione” che poi evolve in uno “Situazione di Crisi” per poi finire in un “Conflitto Armato”. Tale processo può essere in alcuni casi estremamente evidente mentre in altri totalmente occulto, ovvero “sotto traccia”, risultando quindi inaspettato.
Si può anche ragionevolmente affermare che gli ultimi conflitti hanno spesso (se non sempre) avuto inizio senza una formale “dichiarazione di guerra”, dichiarazione che nella maggioranza dei casi sarebbe stata comunque di difficile realizzazione pratica, o per la mancanza di un destinatario ufficiale a cui inviare tale dichiarazione (es. ad una organizzazione terroristica o ad una fazione ostile locale) o per l’impossibilità istituzionale di formularla (es. l’ordinamento interno di uno Stato vieta la dichiarazione di guerra ad un altro Stato).
Spesso le ostilità nascono all’interno di sovranità nazionali o di realtà locali circoscritte, senza contare il fatto che risulterebbe veramente difficile consegnare una “dichiarazione di guerra” ad una organizzazione terroristica! In definitiva, esistono delle situazioni critiche, in cui non si può parlare di “guerra” in senso stretto, o negli specifici termini classici stabiliti dalla dottrina, ma nemmeno di “pace” o di “pace prevalente” in senso generale.
Per fronteggiare militarmente una guerra non dichiarata o tutte quelle particolari situazioni non ben definite di “non guerra, o comunque di forte instabilità, di tensione o di crisi sono state stabilite delle operazioni militari dedicate e definite come “Operazioni militari diverse dalla guerra” (Military Operations Other Than War – MOOTW). Alla luce del fatto che nel Trattato del Nord Atlantico (il Trattato della NATO) le “operazioni di Guerra” sono previste dall’articolo 5 (article five Operations), le operazioni di “non Guerra” vengono anche definite come “Non article five Military Operations”. Se tali operazioni si sviluppano come risposta ad uno stato di tensione o ad una situazione di crisi, tali operazioni assumono la definizione di “Crisis Response Operations”(CROs) nell’ambito delle quali trovano collocazione anche le “Operazioni per la pace” (“Peace Support Operations” - PSOs). Complementari a tali Operazioni, attuabili in una situazione di “non belligeranza”, vi sono anche altre Operazioni definite “Operazioni di Guerra Non Militari” (“Non Military War Operations” - NMWOs) che in realtà sono delle “attività” gestite sia da governi che da organizzazioni civili/private/non governative e quindi, per l’appunto, “Non Military”, e sono orientate a creare “varie forme di destabilizzazione” contro uno specifico Paese preso come obiettivo: si tratta di attività di varia natura tese, per esempio, a garantire l’impunibilità di criminali e delinquenti, ad organizzare e trasferire ondate di migranti, a garantire il traffico di stupefacenti, di uomini e di armi, a gestire la manipolazione delle informazioni, a incentivare l’uso improprio di aiuti umanitari, a supportare la difesa politica di presunte identità etniche o il diffondersi di teorie politico/religiose finalizzate al sostegno di ideologie ostili.
In ambito marittimo tutte quelle operazioni militari tese a eliminare i possibili rischi o contrastare e/o eliminare le varie minacce provenienti dalle attività inerenti il settore marittimo, dai traffici illegali, dalle attività criminali alla pirateria o al terrorismo, vengono dottrinalmente definite come “Maritime Security Operations” (MSO), ovvero Operazioni di Sicurezza Marittima. Le MSO, sono operazioni navali che prevedono una ampia varietà di missioni di tipo sia “Militare” (Military) che di “Polizia” (Constabulary), talvolta dette anche di “Imposizione della legge” (Law Enforcement). Le Military sono inerenti l’Antiterrorismo, la Protezione di Forze Operative o di naviglio mercantile, l’Antipirateria, le attività di Presenza e Sorveglianza, di Intelligence mentre le Constabulary/Law Enforcement, vanno dalla repressione di attività criminose o criminali all’applicazione di regole di Diritto Internazionale Marittimo (per esempio l’esercizio del “diritto di visita” o del “diritto di inseguimento”).
In tale ampio contesto di MSO, sono annoverate anche le cosiddette “Maritime Interdiction Operations” (MIO), Operazioni di Interdizione Marittima che, a seconda delle necessità, degli obiettivi da conseguire, degli interessi da difendere hanno anch’esse natura military o constabulary. Le MIO possono inoltre prevedere anche l’interdizione marittima in acque internazionali per attuare una “Difesa preventiva”, ovvero per contrastare una minaccia anche solo generica e potenziale o per attuare un Embargo Navale o un Blocco Navale. Per inciso, un Embargo, se non per legittima difesa, viene decretato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e messo in atto in applicazione ad una specifica Risoluzione dell’ONU: in tal caso la MIO, pur mantenendo la stessa sigla, assume però la dizione di “Maritime Interception Operation”.
Le MIO, inizialmente nate come operazioni di sorveglianza del traffico marittimo commerciale e volte a realizzare embarghi navali coercitivi mediante l’applicazione di determinate misure/azioni di interdizione, si sono notevolmente ampliate in ragione delle sempre più crescente necessità di garantire il controllo e la sicurezza di determinare zone di mare (sia in alto mare che sottocosta) impiegando sia unità navali d’altura e sia unità costiere. Fattore in comune a dette Operazioni è che a bordo del naviglio militare impiegato per l’azione siano presenti a bordo “Gruppi di Assalto” (costituiti o da marinai o da truppe anfibie o da forze speciali) specializzati in azioni di Arrembaggio, tecnicamente definito “Boarding”, in grado di effettuare un vero e proprio abbordaggio attuato ovviamente secondo specifiche tecniche e tattiche operative moderne con l’impiego di battelli pneumatici a carena rigida e/o elicotteri. Tali operazioni sono finalizzate ad interdire alla navigazione zone particolari di mare (Interdiction) o identificare il naviglio sospetto, fermarlo, visitarlo, ispezionarlo e, eventualmente, catturarlo e dirottarlo in porti sicuri per procedere al sequestro.
In ragione di quanto appena detto, il ”Boarding” viene spesso denominato anche, con un termine concettualmente più ampio, di “VBSS”, ovvero “Visit, Board, Search and Seizure” (“visita, abborda, ricerca e cattura/sequestra”). La nave catturata, se le regole di ingaggio lo prevedono, può essere anche affondata anziché sequestrata. Un’azione di abbordaggio si può sviluppare in due possibili situazioni che vengono individuate dall’atteggiamento, amichevole o meno, dimostrato dal naviglio che sta per essere oggetto di un abbordaggio. L’azione, in termini dottrinali, si può quindi svolgere di un contesto definito “collaborativo” (Compliant boarding), o in un contesto definito “non collaborativo o ostile” (Non compliant/Non permissive boarding).
Dal punto di vista tattico, il “Boarding” può essere effettuato mediante diverse modalità di esecuzione che sono principalmente determinate dalle condizioni meteomarine (stato del mare, forza del vento, pioggia, visibilità…), dai mezzi a disposizione (navi, battelli pneumatici, elicotteri…), dalla tipologìa e dalle caratteristiche del naviglio da abbordare (tipologìa e funzione, tipo di carico, sovrastrutture presenti, valutazioni sulla massima velocità esprimibile, tipo di propulsione e organi di governo, altezza del bordo libero delle fiancate….) e dal tipo di minaccia che si potrebbe trovare a bordo (terroristi, pirati, banditi, bande armate…).
Il boarding può essere effettuato sia di giorno che di notte e sia che la nave da assaltare sia in navigazione (underway/steaming) o che sia ferma in mezzo al mare (static/floating). Ma come fermare una nave
che non intenda fermarsi? La prima vera difficoltà, tralasciando le condizioni meteo-marine che potrebbero rendere inattuabile un Boarding, è quella in cui si incorre quando la nave da ispezionare non intenda fermarsi e farsi abbordare rientrando, a pieno titolo, in una situazione “non collaborativa”. A questo punto, dopo i doverosi “Colpi di avvertimento” impiegando cannoni o mitragliatrici, qualora la detta nave non si fermi (e dato che una cannonata direttamente in plancia in tempo di pace non è attuabile), i metodi per fermare una nave, senza doverla danneggiare eccessivamente, devono necessariamente agire o sugli organi di governo (timoni e/o eliche) o sugli organi di propulsione (motori, sala macchine o centrali elettriche).
Al proposito, vengono individuati due metodi:
- bloccare le eliche con un “cavo intrappolatore”. L’Unità Navale incaricata per l’interdizione, che avrà già opportunamente approntato e “abbisciato” a poppa un cavo di rafia o una verrina d’acciaio, dovrà manovrare ad elevata velocità per tagliare la rotta della nave da bloccare e , passandole a brevissima distanza, dovrà “filare a mare” il cavo intrappolatore. La nave da abbordare, anche contromanovrando, non potrà evitare di finire con le eliche sul cavo che, avvolgendosi velocissimo almeno ad un asse dell’elica, andrà a bloccare l’asse stesso e quindi la nave. Per il detto intrappolamento, alcune Marine, anzichè i cavi, utilizzano speciali reti galleggianti;
- sparare per danneggiare gli organi di governo e/o di propulsione. Si chiama “Fuoco incapacitante” e si effettua dall’Unità Navale incaricata per l’interdizione impiegando mitragliere, mitragliatrici o armi anticarro (mitragliatrici e/o fucili antimateriale se si spara da un elicottero) sparando sui timoni, sulle eliche o nelle zone dei motori o delle centrali elettriche di bordo.
Esiste una ulteriore tecnica, che può essere impiegata sia in una MIO che in un Blocco Navale, che è prevista da quella che si chiama “Guerra di Manovra” e che consiste nell’attuazione di un certo numero di veloci manovre cinematiche atte ad ostacolare se non addirittura bloccare (andando fisicamente a creare una forma di collisione tra navi) quelle navi che intendono forzare l’Interdizione o il Blocco: tale tecnica è definita “Tormento Navale” (“Naval Harassment”)
Il “Blocco Navale” invece è una misura specificatamente contemplata dal “Diritto Bellico” ed è inserito nell’insieme delle varie norme che regolano la Guerra Marittima (sia nazionali che internazionali). Il Blocco Navale è volto ad impedire non solo l’entrata o l’uscita di navi, merci e personale dai porti di un Paese belligerante nemico ma anche il transito in particolari zone di mare o stretti. Escludendo la “Dichiarazione di Parigi” del 1856 relativa ai Principi della Guerra Marittima, il Blocco Navale è considerato “una prassi” disciplinata da “norme di natura consuetudinaria” non essendo mai entrata in vigore la “Dichiarazione di Londra” del 1909 sul diritto della guerra marittima. In ogni caso i principi di tale dichiarazione sono stati recepiti nell’Ordinamento italiano dalla “Legge di Guerra” (Regio Decreto 1415 del 1938).
Successive regolamentazioni di protocolli aggiuntivi alle Convenzioni di Ginevra sul Diritto Umanitario hanno inoltre chiarito ed approfondito ulteriori aspetti e requisiti del Blocco Navale (effettività, imparzialità, blocco fittizio, blocco improprio…). Il Blocco Navale è un metodo legale di operare sul mare in caso di guerra ma deve sottostare a ben determinate regole e deve tenere conto di quanto stabilito dal “Diritto Internazionale applicabile ai conflitti armati sul mare” (“Manuale di S. Remo” - 12 giugno 1994).
Rientrando in questioni di Diritto Internazionale l’implementazione di un Blocco Navale deve essere comunicata a livello internazionale a tutti anche in ragione del fatto che per essere efficace il Blocco deve essere mantenuto nel tempo. Sono previste specifiche comunicazioni per informare i vari Paesi amici e neutrali del blocco stesso in modo tale che sia chiaro a tutti che chiunque cerchi di forzare un Blocco Navale, noncurante delle norme, dei previsti appelli via radio o dei colpi di avvertimento effettuati in zona, lo fa conscio del pericolo di essere colpito ed affondato.
Inoltre, a seconda del “livello di belligeranza” che si vuole ottenere, ci sono un certo numero di “azioni a contorno” attuabili da subito, quali: l’impiego di mine antinave (subacquee da fondo, subacquee in quota e di superficie) per interdire aree o tratti di mare, l’attivazione di una zona di divieto di sorvolo (se tatticamente utile) al di sopra del Blocco Navale, il sabotaggio o la distruzione di cavi e condotti sottomarini. Per far rispettare un Blocco Navale vengono utilizzate sia Unità Navali (quindi navi da guerra) che aerei ed elicotteri imbarcati nonché sommergibili. Ci sono tre tipi di Blocco Navale a seconda della distanza dalla costa: il blocco ravvicinato (close blockade) che consente un ottimo controllo della costa ma più pericoloso, il blocco a lunga distanza (distant blockade) che è meno pericoloso ma anche meno efficace ed il blocco “oltre l’orizzonte”, che è una via di mezzo, ovvero un blocco che c’è ma non è visibile dalla costa (loose blockade). Alle volte il Blocco Navale è stato applicato anche in assenza di Dichiarazione di Guerra (es. Israele nel 2006 con il blocco Navale delle acque territoriali libanesi).
* Contrammiraglio Marina Militare Italiana (r)
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