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Il colonialismo di Israele è destinato in un vicolo cieco

di Stefano Marengo


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Nel fine settimana, a Londra, la polizia ha arrestato oltre 470 manifestanti che hanno preso parte a un sit-in di fronte al Parlamento. Tra i fermati figurano anche un uomo non vedente e due signore ultranovantenni. La loro colpa? Semplicemente aver manifestato in modo pacifico contro la messa al bando di Palestine Action, l’organizzazione che da oltre un anno si oppone attivamente alle imprese britanniche che riforniscono la macchina bellica israeliana. Le loro azioni di sabotaggio, che consistono nel far irruzione negli stabilimenti produttivi cospargendo di vernice rosso sangue macchinari e prodotti, sono state ufficialmente dichiarate “atti terroristici” dal governo britannico, e chiunque li compia o li sostenga, come gli stessi manifestanti di Parliament Square, rischia pene fino a quattordici anni di carcere.


La protesta della società civile

Questa brutale repressione del dissenso nella patria dell’habeas corpus e dei cosiddetti principi liberali fa da corollario all’indefesso sostegno garantito da Downing Street al genocidio che Israele sta compiendo a Gaza. Infatti, mentre Keir Starmer cerca invano di contenere il malcontento parlando a mezza voce di un futuribile e imprecisato riconoscimento dello stato di Palestina, il Regno Unito, con le sue imprese e le sue forze armate, continua a fornire supporto materiale, logistico e di intelligence a Tel Aviv. Il messaggio che passa è che le norme basilari del diritto internazionale, così come i continui richiami degli organismi delle Nazioni Unite, le inchieste della Corte penale internazionale e le denunce delle più prestigiose organizzazioni umanitarie internazionali, sono carta straccia di fronte a una politica di potenza disposta a tutto pur di garantire Israele quale avamposto coloniale occidentale nell’area strategica del Levante.

Oggi, tuttavia, la spregiudicatezza di questa politica, condivisa da quasi tutti i governi atlantici, si sta scontrando con la protesta di società civili sempre di più refrattarie a lasciarsi irretire dalla narrazione filoisraeliana. Quando si giustifica l’ingiustificabile, quando per quasi due anni si finge di non vedere un genocidio in atto e anzi lo si alimenta consapevolmente, il prezzo da pagare è necessariamente alto. E così non solo l’Occidente, mandando al macero quegli stessi principi che altrove pretende di difendere (il ben noto “ordine basato sulle regole”), si è ormai squalificato rispetto al resto del mondo, ma gli stessi governi occidentali sono sempre più isolati rispetto alle loro opinioni pubbliche. La repressione che ha luogo ovunque nel nord globale è però il sintomo di una debolezza che alimenta se stessa, perché quando la politica deve ricorrere all’intimidazione e alla violenza per asseverare la propria linea l’unico risultato che può ottenere è la creazione di nuovo dissenso. A confermarlo sono, ancora una volta, i manifestanti di Londra, molti dei quali, intervistati, hanno dichiarato che era la prima volta che prendevano parte a una protesta di piazza.


Prepotenza e consenso del governo Netanyahu

Il sempre più insostenibile carico di contraddizioni che grava sui governi occidentali e ne scuote il cinismo è un riflesso diretto di ciò che sta avvenendo in Palestina, con Israele che si trova ormai in un vicolo cieco da cui non è in grado di uscire. E, si badi, non è una svista parlare proprio di Israele e non del solo governo Netanyahu. Il genocidio di Gaza pone con violenza questioni che trascendono le responsabilità di un esecutivo certo fanatico e sanguinario, ma che mai avrebbe potuto spingersi fin dove si è spinto senza un sostanziale consenso interno. Basti pensare, a questo riguardo, che un sondaggio condotto la scorsa settimana dall’Israel Democracy Institute ha rilevato che quattro ebrei israeliani su cinque si dicono poco o per nulla turbati dalla carestia che Tel Aviv ha indotto a Gaza, dove la morte per fame ha già colpito centinaia di persone e certamente mieterà molte altre vittime nelle prossime settimane.[1]

Da parte di Netanyahu e del suo governo, superata ogni linea rossa e infranta ogni norma del diritto internazionale, c’è la disperata ricerca di una vittoria militare che finora non sono stati in grado di ottenere. Questa necessità, per giunta, si inscrive nel quadro ideologico del colonialismo di insediamento sionista, che impone appropriazione di terra e continua creazione ed espansione di nuove colonie. Da qui il bisogno compulsivo, da parte di Tel Aviv, di alzare ancora la posta, operazione che svolge nascondendosi dietro pretesti propagandistici a cui nessuno in buonafede può più credere. Così la nuova campagna per l’occupazione integrale di Gaza, a cominciare da Gaza City, è esattamente quello che appare: una massiccia pulizia etnica del nord e del centro della Striscia, la cui popolazione sarà convogliata nell’area di Rafah, dove si prevede la costruzione, sotto il nome pudico di centro “umanitario”, di un vero e proprio campo di concentramento. Qui due milioni di palestinesi saranno posti di fronte a un’alternativa secca: o lasciare per sempre la loro terra, oppure rimanere a Gaza e sopravvivere di stenti.


La lotta dei popoli non si può fermare

Il piano di Netanyahu è talmente agghiacciante che addirittura il governo tedesco, da sempre prono ad ogni capriccio israeliano, ha manifestato un sussulto di sdegno. La leadership israeliana pare tuttavia non rendersi conto che accumulare crimini di guerra non significa vincere sul piano militare. È quello che il capo di stato maggiore Eyal Zamir, uomo politicamente vicino a Netanyahu e quindi non certo una colomba, ha provato invano a spiegare al governo. Beninteso, non che a Zamir interessi la sorte dei palestinesi; a importargli è invece la tenuta dell'Idf, stremata dai loro stessi crimini e dalla capacità di risposta della resistenza. Pur non essendo disponibili dati ufficiali, si stima che l’esercito israeliano abbia perso migliaia di uomini tra morti e feriti, mentre decine di migliaia di riservisti stanno dando forfait e tra i reduci il tasso di suicidi e le diagnosi di disturbo da stress post-traumatico hanno raggiunto picchi mai visti in precedenza.

A tutto ciò si deve aggiungere un ulteriore elemento di cui lo stesso Zamir è ben consapevole, ossia che in uno scenario di guerra urbana, tanto più in aree già devastate dai bombardamenti, un esercito convenzionale perde il suo vantaggio tattico a favore di una resistenza che pratica la guerra di guerriglia e persegue obiettivi irriducibili alla tradizionale vittoria sul campo. La storia delle lotte anticoloniali del Novecento lo indica con chiarezza. Se si prendono le vicende paradigmatiche dell’Algeria e del Vietnam si vede bene come la resistenza armata, quando è avanguardia di un movimento di liberazione nazionale radicato nella popolazione, non ha bisogno di sconfiggere militarmente i propri nemici, ma può adottare una strategia di logoramento materiale e psicologico che, nel tempo, fa esplodere le contraddizioni in seno al campo avversario e rende l’occupazione coloniale non più sostenibile.

Tale è oggi la situazione in Palestina. Di certo l’operazione pianificata da Netanyahu, qualora venisse davvero attuata, condurrà a un incremento dei massacri di civili, i cui numeri già oggi sono ben superiori al dato ufficiale di 60mila morti: uno studio pubblicato a inizio giugno su Harvard Dataverse, ad esempio, ha stimato in 377mila i palestinesi “dispersi” a Gaza, ed è francamente improbabile che la maggior parte di essi sia ancora in vita.[2] D’altra parte appare difficile immaginare che l’esercito di Tel Aviv possa realisticamente distruggere una resistenza ben addestrata, che conosce perfettamente il territorio e che è espressione del bisogno di giustizia di un popolo intero.


Le zone grigie di Grossman

È questo il vicolo cieco in cui Israele si è infilato e che oggi turba il cinismo interessato delle élites politiche occidentali e di buona parte di chi, nella stessa Israele, si oppone a Netanyahu. Il piano per la pulizia etnica di Gaza, infatti, sta destando preoccupazione e affanno nel campo del cosiddetto sionismo “liberal” o “progressista”. Bisogna però prendere atto che questi sentimenti non riguardano in alcun modo la sorte dei palestinesi, ma unicamente la sorte dello stato israeliano. In questo senso la discussa intervista rilasciata da David Grossman a “la Repubblica” a inizio agosto è paradigmatica di un modo di leggere la realtà piegandola ai propri sogni ideologici, ossia senza mai fare i conti con ciò che in essa è davvero scabroso.[3]

Sui media mainstream lo scrittore israeliano è stato celebrato da molti commentatori come voce profetica e coscienza dell’epoca. Ma che merito può mai esserci nel riconoscere un genocidio dopo quasi due anni di sterminio quotidiano? Nelle parole di Grossman si cercherebbe invano una manifestazione di pietà per la popolazione di Gaza o il riconoscimento delle ragioni profonde della sua resistenza. Non sono i “dannati della terra” ad angosciarlo, ma il danno reputazionale che questo genocidio può provocare a Israele. Le vittime, nel suo discorso, stanno in un angolo cieco e vengono evocate di sfuggita soltanto per essere colpevolizzate. Ciò che conta, per lui, è salvare il carnefice prima che i suoi atti lo rendano definitivamente un paria. E così la stessa parola “genocidio” è pronunciata solo per essere esorcizzata, ossia non per descrivere una realtà di sofferenza e morte, ma per formulare un programma di tutela politica dello stato che il genocidio lo sta fattivamente compiendo.

“Dobbiamo trovare il modo per uscire da questa associazione fra Israele e il genocidio”, dice Grossman, che forse nemmeno si rende conto del narcisismo patologico di una narrazione perennemente centrata su Israele, di una lamentazione autoreferenziale che non si lascia toccare dal grido di dolore di coloro che proprio Israele colonizza e opprime da quasi ottant’anni. Allora è chiaro che quella di Grossman non è profezia, né coscienza dell’epoca, ma l’ultima linea di difesa del progetto ideologico sionista, ed è per questo che oggi diverse leadership politiche europee, schiacciate dalla loro complicità con il governo Netanyahu, si rivolgono al sionismo “liberal” come se fosse una soluzione praticabile. Si tratta invece di una falsa alternativa: il colonialismo col belletto sarà forse più accettabile nei circoli della “buona società”, ma rimane pur sempre colonialismo. Per chi crede nei valori universali della giustizia, dell’uguaglianza e della libertà affermazioni come quelle di Grossman dimostrano una volta di più che la fine del sionismo e la decolonizzazione integrale della Palestina sono precondizioni che vanno necessariamente soddisfatte se si vuole davvero costruire di un futuro di pace.


La morte di Anas al-Sharif

Mentre concludevo questo articolo è giunta notizia di una nuova strage di giornalisti a Gaza, ripresa con parole forti dalla Porta di Vetro[4], dove negli ultimi 22 mesi almeno 240 operatori dell’informazione sono stati massacrati da Israele. Tra le vittime c’è Anas Al-Sharif, amato reporter di Al-Jazeera.

Anas, come tutti i giornalisti di Gaza, sapeva di essere un bersaglio per Israele, probabilmente immaginava di avere i giorni contati. Per questo ad aprile aveva scritto il suo testamento spirituale, diffuso da un amico subito dopo la sua uccisione:

“Vi affido la Palestina, il gioiello della corona del mondo musulmano, il cuore pulsante di ogni persona libera in questo mondo. Vi affido il suo popolo, i suoi bambini innocenti e oppressi che non hanno mai avuto il tempo di sognare o di vivere in pace. Vi esorto a non lasciare che le catene vi zittiscano, né che i confini vi limitino. Siate ponti verso la liberazione di questa terra e del suo popolo, fino a quando il sole della libertà e della dignità non sorgerà sulla nostra patria rubata”.

Anas Al-Sharif, che Israele continua a definire un terrorista, aveva 28 anni e fino all’ultimo istante della sua vita ha testimoniato il martirio della Palestina e la sua sete di giustizia.

 

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