Europa, non puoi combattere se non esisti: è la dura lex nella battaglia dei dazi
- Giancarlo Rapetti

- 28 lug
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 29 lug
di Giancarlo Rapetti

A scuola, un tempo, si usava spiegare la letteratura senza conoscere gli autori. E si commentavano le poesie senza averle lette. La stessa cosa sta puntualmente avvenendo con “l’accordo” sui dazi raggiunto domenica 27 luglio 2025 in Scozia tra Ursula von der Leyen e Donald Trump. Non è chiaro quanto l’intesa sia definita e quanto da definire.
Tuttavia, a seguito dell’annuncio, si sono scatenati i commenti: quelli più prudenti sono pieni di subordinate (“se fosse così”, “quando sarà chiarito se”, “vedremo se, quando e quanto”). Tuttavia, la comunicazione e la pubblicistica hanno le loro regole: bisogna intervenire a caldo, prima che la notizia si raffreddi e l’informazione diventi noiosa. Essendo inevitabile allinearsi a questo gioco, si può almeno cercare di capire le logiche di contesto, quelle legate all’apparenza politica e che non necessitano della puntuale conoscenza dei fatti e dei contenuti.
Cominciamo dall’America. Il presidente Usa ha promesso ai suoi elettori quattro cose: 1) che avrebbe fermato l’immigrazione negli Stati Uniti e rimpatriato i migranti irregolari; 2) che nessun soldato americano sarebbe morto per difendere la libertà altrui; 3) che nessun dollaro sarebbe stato speso per la stessa ragione, se non nell’esclusivo interesse degli USA; 4) che avrebbe riportato le fabbriche negli Stati Uniti.
Il primo punto è come il “blocco navale” di Giorgia Meloni, pura propaganda. Fermare l’immigrazione è come fermare l’acqua con un muro di cemento, può non esserci l’alluvione ma ne passerà sempre un po’. Quanto ai rimpatri, su svariati milioni ne ha rimpatriati qualche centinaio o migliaio in favore di telecamere; ma, avendolo i dem attaccato sul piano umanitario, ha ottenuto il risultato voluto, perché è come se l’avesse fatto. I punti due e tre si attuano con il disimpegno da tutti i fronti. Sull’Ucraina è evidente, ma in Medio Oriente non è molto diverso: il messaggio a Israele suona come “fai come ti pare, ma arrangiati”. La fornitura di armi non contrasta con questa scelta: se qualcuno le armi le paga, non è politica, è business. Al richiamo del business il tycoon non resiste.
La partita dei dazi si innesta sul quarto punto. Trump lo ha dichiarato esplicitamente: “nell’immediato soffriremo, ma poi ci saranno grandi vantaggi per l’America”. Nell’immediato, infatti, i dazi saranno pagati dai consumatori americani: se continueranno a comprare i prodotti importati, li pagheranno di più. Ma se si rivolgeranno ai prodotti locali, anche quelli costeranno di più, perché la concorrenza dei prodotti di importazione sarà indebolita. Naturalmente sarà così se in Europa e in Italia non passerà l’idea improvvida di sussidiare le imprese con soldi pubblici per compensare l’incidenza dei dazi: nel qual caso, a pagare non sarebbero i consumatori americani, ma i contribuenti europei e italiani.
Nel mondo razionale, questa ipotesi non dovrebbe esistere. Trump lo mette in conto, ma l’obiettivo dichiarato e perseguito è costringere le imprese che vogliono vendere negli Stati Uniti a produrre negli Stati Uniti. Molti sostengono che l’obiettivo non sia realistico, che ci siano troppi ostacoli da superare e tempi lunghi perché questo accada. Non ho le competenze, né i dati per entrare nel merito della discussione. Mi limito ad osservare che questo vuole il Presidente USA. E da chi lo vuole?
Nessuno pensa che le imprese cinesi, indiane, brasiliane o sudafricane delocalizzino negli Stati Uniti. Il vero obiettivo, dunque, è l’Europa. Da questo punto di vista, il nodo forse più debole dell’intesa raggiunta nella verde Scozia sta nel fatto che la tregua evita i contro-dazi, che avrebbero reso meno conveniente la delocalizzazione: se vado a produrre negli USA, vendo là, ma non posso più vendere in Europa; se non ci sono i contro-dazi, produco in USA e vendo là e pure in Europa. Schematismo rozzo? Lo ammetto, ma rende l’idea.
Detto questo, una lancia va spezzata a favore di Ursula von der Leyen. La quale non è il Presidente dell’Europa, ma della Commissione esecutiva, che non è il Governo europeo. Il Governo europeo è formato dal Consiglio europeo, cioè dagli Stati. La Presidente si trova nella situazione dell’amministratore di condominio: dipende dai condòmini, e deve cercare di non scontentare nessuno; con il rischio, in questo esercizio di equilibrio, di scontentarli tutti. L’Europa non è una federazione, e nemmeno una confederazione. E’ una entità nella quale ogni Stato porta i propri interessi nazionali, secondo la regola dei rapporti di vicinato: si accetta un danno per sé, purché il danno per il vicino sia maggiore; si accetta la rinuncia ad un vantaggio per sé, purché la rinuncia per il vicino sia maggiore. In questa situazione, qualunque cosa proponga, la Commissione rischia di sbagliare.
Sono passati pochi mesi dall’annuncio del piano RearmEU. Stretta tra l’aggressività russa e il disimpegno americano, l’Unione Europea sembrava aver trovato un nuovo orgoglio e un cambio di passo. Tutto ciò è svanito nel nulla sulla questione dazi. Il piano di riarmo, ammesso che esista ancora, non servirà più a rilanciare l’industria europea della difesa, ma ad acquistare prodotti americani. Chi dice che l’Unione è troppo debole per negoziare davvero, forse prende atto della realtà, ma lancia un messaggio disperante. Insomma, a costo di annoiare, va ribadito il concetto base: anche per trattare, oltre che per combattere e vincere, prima di tutto bisogna esistere.













































Commenti