La Grande Guerra vista da Avigo Pietro Napoleone, un ragazzo del '99
- Luisella Fassino
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di Luisella Fassino

Il 3 novembre 1918 fu firmato a Padova, nella Villa Giusti del conte Vettor Giusti del Giardino, l'armistizio fra l'Impero austro-ungarico e l'Italia. La travolgente cavalcata di Vittorio (da quel momento si aggiunse anche Veneto) era stata trasformata in vittoria.
Il giorno dopo, arrivò la pace al fronte e cinque milioni di soldati cominciarono a pensare che il ritorno a casa non fosse soltanto un miraggio. L'inutile strage denunciata da Papa Benedetto XV, l'immane carneficina di milioni di uomini era durata per il Regno d'Italia tre anni, cinque mesi e dieci giorni, il tempo trascorso dall'ingresso in guerra il 24 maggio 1915 a fianco dell'Impero Britannico e della Francia contro gli Imperi centrali.
Il vecchio mondo era crollato e l'Italia ne usciva con un fardello di vite umane perdute e menomate inimmaginabile all'epoca delle "radiose giornate" del maggio 1915, in cui folle di interventisti inneggiavano alla guerra per Trento e Trieste con il concorso dietro le quinte di una Monarchia avida, impersonificata da Vittorio Emanuele III, un re che nei successivi decenni avrebbe mostrato il suo pavido opportunismo favorendo la violenza di Mussolini e le leggi razziali.
Oggi, 4 novembre, è il giorno dell'Unità nazionale e delle Forze armate. Una celebrazione importante che la memoria non deve smarrire anche per ciò che ha poi significato negli anni Venti del Novecento l'avvento del cancro fascista e la successiva esplosione di un nuovo e devastante conflitto, per il nostro Paese e per l'Europa, . Ma, proprio riguardando il passato, non possiamo fare a meno di rilevare che questa Festa, per una serie di eventi internazionali e di politica interna, ha perduto negli ultimi anni quell'afflato di inno alla convivenza di pace tra i popoli. Mala tempora currunt, sed peiora parantur, se non prevarrà la restituzione della centralità del buon senso nelle relazioni tra le Nazioni, unico mezzo per scacciare la prepotenza di autocrati, dittatori e finti democratici che, come un invisibile veleno, sta distruggendo l'ideale di pace e il ripudio della guerra. Nel ricordo della Grande guerra, presentiamo il "diario" impossibile La di Avigo Piero dei Patriarchi, un ragazzo del '99, scritto dalla nipote Luisella Fassino.
La Porta di Vetro

Mi chiamo Avigo Piero dei Patriarchi, anzi il mio vero nome è Avigo Pietro Napoleone, come è scritto sul mio foglio matricolare, classe 1899. Perché nel mio nome ci sia anche l’imperatore di Francia non l’ho mai saputo, all’epoca non c’era tempo per fare tutte queste domande, ma credo che fosse per quella voglia di rivoluzione e libertà che, mio padre, mezzadro del prete non poteva neanche sognare per sé e per i propri figli e dunque, quell’idea si doveva nascondere dietro il nome del primo degli apostoli, il più caro a Gesù e senza dubbio al signor prevosto, padrone del fondo.
Lombardo, anzi gardesano, sono nato a Manerba, un paese poco a sud di Salò, sulla sponda occidentale del lago di Garda, un luogo verdeggiante di viti e ulivi, un panorama incantevole su cui domina la Rocca, un’alta scogliera, alla cui nascita, leggenda vuole, abbia assistito la mia dinastia, quella dei “Patriarchi”, una delle famiglie più antiche del luogo.
Brutta la fame! Mettere a tavola la polenta per undici figli era un piccolo miracolo, che mamma Margì doveva compiere ogni giorno, ma quanta fatica.
Dunque, dicevo, una vita difficile per la mia famiglia, mezzadra [1] del prete della Pieve, ricca solo di bocche da sfamare.
Forse si è persa la memoria e val la pena ricordare che la mezzadria era un contratto, abolito dalla riforma agraria nel 1964 (legge 756), retaggio medievale e figlio della servitù della gleba, che prevedeva la divisione del prodotto della terra fra il contadino che la coltivava e il proprietario del fondo. Raccontata così sembra persino una bella opportunità occupazionale, tu metti il fondo e la casa per me e la mia famiglia, io lavoro e poi, si fa a metà. Ma le cose non andavano esattamente così, perché il signor padrone sanciva una forte influenza sulle vite e sul destino di noi mezzadri e delle nostre famiglie, finanche a cacciarci di casa quando qualche cosa non andava esattamente come voleva lui.[2]
E peggio del signor padrone era il suo fattore, una specie di sbirro con il fucile a spalla che controllava il lavoro dei contadini e faceva la spia se qualcuno manifestava inclinazioni sovversive.
Nato nel 1899, dunque ultima leva a essere chiamata al fronte della Prima guerra mondiale: poco importava al mostro della guerra che avessimo o no diciotto anni o che il nostro frettoloso addestramento fosse adeguato ad affrontare la trincea: partire, si doveva partire.
Conservo negli occhi e nel cuore quella paura, io e mio cugino alla stazione di Brescia, era il 13 giugno 1917, così recita il mio foglio matricolare, lui piangeva come un vitello e ne aveva ben ragione, una pallottola crucca lo spedì al creatore al primo assalto alla baionetta.
Che spavento per un bambino divenuto uomo troppo presto: frastuono, panico, lingue sconosciute e i carabinieri che ti spingevano con il fucile puntato alla schiena se esitavi a saltar fuori dalla trincea, quando il capitano urlava “Baionette in canna, all’assalto”.
E io ero il primo a saltare fuori. Forte com’ero mi avevano spedito a scavare trincee e costruire cavalli di frisia. Lì sull’altipiano presi i gas, non so se fosse il fosgene o l’Yprite, ma poca differenza faceva, entrambi erano un’arma devastante e spaventosa, il primo causava asfissia con edema polmonare, mentre l’altra procurava dolori insopportabili per le ustioni sulla pelle e per i danni permanenti agli occhi e agli organi interni.
Ma l’intossicazione non bastò per tornare a casa: dopo una breve convalescenza all’ospedale, nelle retrovie, tornai lassù, su quelle montagne, ancora a scavare, in mezzo a quel baccano, nel pantano, con le cimici e i pidocchi che tormentavano la pelle e i topi che se non fossi stato attento avrebbero mangiato anche me e poi ovunque quell’odore di cadaveri putrescenti che mi toglieva il fiato e al quale non potevo certo abituarmi.
Ma ogni cosa prima o poi finisce e così quella maledetta “Grande guerra”, voluta da un manipolo di intellettuali interventisti, ma combattuta da noi, contadini, muratori, operai, insomma povera gente che seppur italiani parlavamo un idioma spesso incomprensibile fra di noi: “carne da cannone” così ci chiamavano.
E così tornai a casa, dove mi attendeva una nuova immane tragedia, una “moria”: vedevo spegnersi uomini, donne e bambini consunti da una febbre che non aveva cura, che in poche ore manifestava tutta la sua atrocità, distruggendo i polmoni e causando la fine per mancanza di ossigeno.[3]
Ma non era arrivato il mio momento, così anche quella volta la nera signora mi passò accanto, ma girò lo sguardo altrove.
Non volevo un futuro da mezzadro e così mi misi alla ricerca di un lavoro diverso. Illusorie furono le parole del mio capitano, che mi aveva promesso un bell’impiego da custode in un palazzo signorile di Brescia: anche per quel lavoro ci voleva una certa istruzione e io avevo frequentato, e devo confessare con ben poco profitto, solo la seconda elementare, a stento sapevo leggere e ancora meno scrivere.
Lo spettro della disoccupazione incombeva sul mio futuro. Ero forte, corretto e di sani principi e per le mie idee di giustizia venni considerato un pericoloso sovversivo socialista, ma io volevo solo un mondo più giusto e sentivo di meritarmi un po’ di tranquillità, ripugnavo l’appello del sindacato che reclutava iscritti per bruciare il raccolto come atto punitivo verso il padrone, ma non volevo neanche rispondere al padrone che mi chiedeva di controllare il lavoro degli altri e fare la spia.
Allora via, per non finire ubriaco di olio di ricino sotto i manganelli degli squadristi.
Novello sposo, il primo giorno di primavera del 1924 mi costrinsero a partire, io e la mia sposa, Maria, una fuga notturna portando con noi le povere cose che possedevamo.
In Francia non andava male, facevo onestamente il mio lavoro in un “Domaine”: una bella fattoria vicino a Perpignan, curavo le viti e coltivato la terra.
Mi trattavano bene, come un essere umano, erano gentili, avevo un buon stipendio, una casa dignitosa e non mancava il cibo per me e Maria.
Una breve parentesi, un sogno finito troppo presto.
La mia sposa, in dolce attesa, non voleva far nascere la nostra unica figlia Pierina in un paese straniero, lontana dalla casa della sua mamma, così imboccammo la strada del ritorno, con la paura che i fascisti non si fossero dimenticati di me e con l’opprimente spettro della disoccupazione ad aspettarmi.
Ma la vita deve andare avanti, nonostante le sue incognite e le sue difficoltà. Trovai un lavoro in un paese lontano su, sulla montagna sopra Salò. Tutti quei chilometri da percorrere mattina e sera, con la calura estiva e con il gelo dell’inverno per presentarmi puntuale, ogni giorno, nella fornace di mattoni a Vobarno il cui padrone non mi risparmiava le minacce di denuncia: “Attento Avigo, ti conosco, lo so che sei un sovversivo”.
Così per tanti anni, finché appresi che in Piemonte c’era lavoro, dovevano irrobustire le fortificazioni militari del Moncenisio: bunker, sbarramenti, blocchi anticarro per difendere la Patria dal nemico che arrivava dal nord, difese che ai primi attacchi dei francesi crolleranno come castelli di sabbia in riva al mare.
Non ricordo neanche io perché presi la decisione di emigrare, forse le minacce di denuncia mi spaventavano ogni giorno di più, così presi nuovamente coraggio e partii.
Ma anche l’esperienza del Moncenisio finì: lassù non c’era più bisogno delle mie forti braccia, così scesi e mi fermai nella bassa valle, ad Avigliana, dove ad attendermi c’era la mia famiglia.

Mi adattai a fare tanti mestieri: guardiano alle chiuse di Sangano, tuttofare al ristorante Lago Grande da “papà Italo” e alla Maiana, dove la mia Maria lavorava come cuoca. Avevo ritrovato una dimensione umana, non c’era più la paura delle denunce a popolare i miei incubi notturni, chissà, forse il mio ulteriore sforzo per la difesa della Patria, aveva fatto perdere le mie tracce o mi aveva riabilitato agli occhi di chi mi aveva bollato come un pericolo ribelle.
Poi arrivò quell’impiego al Dinamitificio Nobel, nel reparto dove si producevano la balistite[4] e il fulmicotone[5], un lavoro in piena regola con stipendio e tanto di “marchette”, un lavoro nell’industria bellica, che mi risparmiò una nuova partenza.
Vedevo gli amici e i fratelli di nuovo in viaggio verso il fronte: Grecia, Africa, Albania, Russia, tanti di loro non tornarono mai più, dispersi nelle fredde steppe del Don o trucidati nelle isole Ionie.
Ma come dicevo, ogni cosa prima o poi finisce, e così anche quella seconda guerra della mia vita, e la fabbrica dove si facevano le bombe diventa la Duco e si converte alla produzione delle vernici.
Niente a che vedere con gli strumenti di distruzione che ogni tanto colpivano anche gli operai che li producevano, ma belle vernici per tingere il mondo con i colori della pace.
Però ancora non sapevo quale trappola mi attendeva: quegli anni trascorsi tra i solventi respirati senza protezione, con i polmoni invasi dai miasmi tossici, si rivelarono il mio vero nemico.
Più devastanti del gas letale sull’altipiano, più impietosi delle pallottole crucche, furono proprio quei vapori invisibili a tradirmi. Così, alla fine, fu la leucemia a rubarmi l’ultimo respiro, in una notte d’inverno gelida come non ne avevo mai vissute, una notte in cui la nera signora si accorse anche di me e mi strinse nel suo fatale abbraccio.
Note
[1] La mezzadria era un contratto abolito dalla riforma agraria nel 1964 i cui assi portanti erano il podere, la famiglia colonica, la casa rurale e la proprietà che costituivano una struttura indivisibile con obblighi, diritti e doveri per le parti contraenti. Detto così può sembrare una condizione lavorativa ottimale, tuttavia in molti casi questo principio andò incontro a distorsioni a vantaggio del concedente fino a dar luogo nelle aree sovraffollate, a bassa produttività con conseguente povertà per la famiglia del mezzadro.
[2] Una simile storia è raccontata ne “L'albero degli zoccoli” un film del 1978 diretto da Ermanno Olmi, vincitore della Palma d'oro al 31º Festival di Cannes. Il film è stato selezionato tra i 100 film italiani da salvare
[3] L'influenza spagnola, conosciuta anche come la spagnola o la grande influenza, fu una pandemia influenzale di natura virale e insolitamente mortale, che fra il 1918 e il 1920 uccise in tutto il pianeta, un numero di persone che, a causa della censura, della guerra e della difficoltà ai definire una diagnosi, non si riuscì mai a definire ma che si stima fra 20 e i 30 milioni.
[4] La balistite, propriamente detta, è una polvere da guerra senza fumo, composta per circa il 50% di nitroglicerina e per il 50% di nitrocellulosa (cotone collodio al 12% di azoto).
Fu preparata, per la prima volta, in Italia ad Avigliana, da Alfredo Nobel, nel 1888, approfittando della scoperta fatta dal Vieille che la potenza frantumante della nitrocellulosa poteva venire trasformata in potenza progressiva o propulsiva modificandone la struttura fibrosa mediante gelatinizzazione con solventi volatili, ma sostituendo al solvente volatile, che viene eliminato dalla polvere, la nitroglicerina, solvente fisso, ottimo gelatinizzante della nitrocellulosa, e per suo conto sostanza esplosiva ad alto potenziale.
Le modificazioni di Nobel partirono dalle gelatine esplodenti, gomme, e gelatine dinamiti, e si conclusero poi con la balistite.
[5] Fulmicotone s. m. [comp. di fulmi(nante) e cotone]. – Altro nome della nitrocellulosa ad alto contenuto d’azoto, corrispondente alla tri nitrocellulosa, così detta perché ottenuta trattando il cotone con acido nitrico.
(Fonte Treccani)











































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