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Neofascismo davanti alle scuole: la solitudine degli studenti e il silenzio di chi governa Torino

di Igor Piotto


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Paul Nizan nel suo romanzo Aden Arabia, un romanzo di formazione profondo ed irriverente, apre la narrazione con una frase che attraversa il tempo, senza perdere la sua potenza originaria: “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”. Avere vent'anni rimanda a un elemento strutturale, è la fascia di età dove è massima l'ampiezza delle possibilità di costruire e progettare la propria vita. Da qui in poi quel dato quantitativo sarà curvato dall'incontro del singolo con le possibilità e i vincoli del contesto storico di riferimento che viene ereditato dalle generazioni precedenti.

Sono diverse settimane che le scuole torinesi vedono la presenza di neofascisti che davanti agli istituti – quelli più impegnati nella mobilitazione a favore del popolo palestinese – diffondono volantini di chiara e inequivocabile matrice razzista e classista: l'obiettivo è screditare, stigmatizzare, ragazze e ragazzi che frequentano i nostri licei e istituti, figli di immigrati, figli di lavoratrici e lavoratori.

L'azione di questo rigurgito dell'estremismo di destra ha sempre lo stesso copione: intimidire con il linguaggio dei volantini e far circolare la prepotenza con la postura autoritaria, come ci ricordano gli episodi avvenuti al Primo artistico e al liceo Einstein di alcune settimane, giorni fa, in uno dei quali si è anche segnalato il fermo di uno studente di sedici anni, ammanettato dalle forze dell'ordine.[1]

Ma questa volta la reazione studentesca ha determinato alcuni elementi di novità. Non solo le ragazze e i ragazzi reagiscono denunciando queste violenze, ma cresce la solidarietà e la presa di posizione netta di famiglie e insegnanti. Gli insegnanti delle scuole oggetto delle aggressioni denunciano i fatti gravi e scrivono appelli alla difesa della scuola democratica e della Costituzione. A questi si aggiunge una lettera firmata da 120 famiglie di studenti dell'Einstein. Una lettera che chiama in causa il silenzio di quanti nella scuola hanno assistito alla violenza e delle posizioni della dirigenza. Quest'ultima ha evidenziato l'incapacità di assumere quel ruolo educativo che deriva dalla difesa di una istituzione scolastica offesa: se, anche in presenza di una divergenza con i collettivi studenteschi o parte di essi, a mio avviso prevale il posizionamento del dirigente e in second'ordine la salvaguardia dell'intoccabilità dell'istituzione educativa viene meno il ruolo di direzione di un luogo costituzionalmente deputato alla formazione della cittadinanza.

La presa di posizione dei genitori e degli insegnanti che hanno scelto di esporsi, di rendere visibile e riconoscibile il loro dissenso rappresenta un grande valore civile. Sono azioni che se da un lato hanno l'obiettivo di denunciare l'arbitrio, dall'altro hanno l'obiettivo latente di accorciare una distanza. “Ci hanno lasciati soli”, questo lamentava una ragazza aggredita di fronte all'Einstein. Questa è stata la distanza, la solitudine. Quella parte di mondo adulto ha scelto di posizionarsi tra i ragazzi e il mondo, quel mondo che assume il volto della prepotenza, di genere, di razza, di classe. È stata una “solidarietà di prossimità”, da parte di due agenzie di socializzazione determinanti nella vita di ciascuno, la relazione genitoriale e la relazione educativa.

Nonostante le numerose richieste di intervento provenienti dagli insegnanti, dai genitori, dalla Camera del lavoro di Torino, non c'è stata alcuna dichiarazione da parte di chi guida la città, compresi gli assessorati che direttamente o indirettamente sono coinvolti nei processi educativi. Ma i silenzi veicolano messaggi, non decidere è decidere. La distanza evocata dalla studentessa dell'Einstein evoca uno scenario di più ampio respiro. È la rivendicazione di una generazione che percepisce con forza e con rabbia la progressiva espropriazione di un orizzonte di futuro. Dal secondo dopoguerra è difficile trovare una generazione su cui si addensano valori negativi sui principali indicatori economici e sociali: discontinuità occupazionale, forte esposizione all'impoverimento lavorativo e allo sfruttamento, congelamento delle leve di mobilità sociale, disgregazione degli istituti su cui le diverse generazioni avevano ancorato saldamente la possibilità di progettare la propria vita.

Di fronte a questo, tutto ciò che va oltre le relazioni di prossimità (genitori e insegnanti), la politica e chi ha ruoli dirigenti non hanno saputo stabilire alcuna interlocuzione. A questi ragazzi viene rimproverato un eccesso di radicalismo e di aver strappato lo schermo su cui viene proiettato il nastro ormai desueto del moderatismo senza prospettiva. Quei ragazzi parlano a tutti noi, rappresentano le nostre contraddizioni, forse anche le nostre sconfitte. Una parte del mondo adulto non ha voltato lo sguardo altrove. Si chiama responsabilità.

Questi ragazzi desiderano intensamente che questa sia la più bella età della loro vita.


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