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Europa green leader?

Aggiornamento: 17 mar 2023

di Mercedes Bresso

La moda “green” ha conosciuto fortune alterne nel corso degli ultimi 50 anni. Per chi avesse poca memoria ricordo che il rapporto del Club di Roma sui Limiti dello sviluppo è del 1970 e che il primo grande summit mondiale sull’ambiente, l’antenato delle ormai quasi trenta Cop… e dei due di Rio, si tenne a Stoccolma nel 1972 e già allora tutte le grandi questioni ambientali erano state poste sul tappeto: esaurimento delle risorse, inquinamenti di aria, acqua e suolo, perdita di biodiversità, complessità nella gestione dei Commons (i beni ambientali globali, per i quali erano necessari accordi a livello mondiale).

La stessa questione del cambiamento climatico era stata sollevata in termini molto chiari da Enzo Tiezzi che in Tempi storici, tempi biologici aveva evidenziato come il fatto di bruciare in pochi anni enormi quantità di combustibili fossili, che nel corso di centinaia di milioni di anni avevano fissato la CO2 in atmosfera creando un’aria adatta ai nostri polmoni, avrebbe comportato una modifica della composizione della fascia di aria che circonda la Terra, con immissione di gas a effetto serra e gravi rischi per uomini e mondo animale. Da allora sono passati cinquant’anni, ma quando assistiamo ai summit ambientali più recenti possiamo constatare che poco o nulla è cambiato, anzi che continuano a dominare gli egoismi. Dobbiamo quindi renderci conto che gli allarmi non bastano, neppure quando sono capaci di mobilitare milioni di giovani nelle piazze di tutto il mondo.

Come la stessa Greta Thunberg ricorda ogni volta nei propri interventi, spetta alla scienza e alla politica indicare le soluzioni a questioni che sono, ricordiamolo, di enorme complessità. Che cosa potrebbe fare la differenza? Farci passare dagli allarmi a una fase di decise e concrete modifiche dei comportamenti e dei modi di vivere e produrre? E quale ruolo potrebbe giocare l’Unione Europea che ha lanciato il New green deal per la prossima legislatura? Credo che anzitutto si dovrebbe mettere mano a una generale e completa revisione di tutte le normative sull’ambiente. Se l’equilibrio fra le esigenze dell’economia e della popolazione umana e quelle dell’ecosistema terrestre deve essere realizzato in modo da renderlo sostenibile nel lungo periodo, occorre evitare di avere norme e comportamenti che entrino in conflitto fra di loro. Concretamente, ciò significa che, quando si sviluppano nuovi prodotti, occorre valutare non solo il loro potenziale economico e il loro impatto sull’ambiente ma creare una vera e propria conoscenza regolatrice che tenga insieme le due cose.

Non dobbiamo creare prodotti o servizi che hanno un forte impatto sull’ambiente e poi imparare a riciclarli o a ridurne l’impatto, ma fin dall’inizio dobbiamo progettarli in modo che il loro uso non danneggi l’ambiente nel lungo periodo e che vadano a sostituire prodotti e servizi ad impatto maggiore, avendo cura di tenere conto di tutte le fasi del loro ciclo di vita. Ma ciò non basta, dobbiamo anche progettarli in un modo che permettano alle persone di vivere meglio, che non distruggano occupazione senza crearne di nuova e a minore impatto. Perché ciò sia concretamente possibile serve una cultura della globalità e della complessità: dobbiamo imparare a ri-progettare la nostra vita e la nostra economia in modo globale e sistematico. Ad esempio, non basta adattare casa per casa le nostre abitazioni alle nuove tecnologie energetiche: dovremmo prendere interi quartieri, o intere cittadine piccole e medie, e riprogettare integralmente le abitazioni, i trasporti, le attività, in modo che diventino produttrici nette di energia, che abbiano un bilancio positivo della CO2, che riorganizzino in modo totale la gestione dei rifiuti liquidi, solidi e gassosi, abbiano un bilancio positivo della biodiversità.

È solo progettando tutto insieme che si comprendono i problemi e i costi e si trovano le soluzioni sostenibili da tutti i punti di vista. Si scoprirà che ci sono equilibri che non riusciamo a raggiungere allo stato attuale delle nostre conoscenze e questo ci aiuterà a sviluppare un sapere e delle tecnologie diverse e più sostenibili. Ovviamente esistono problemi da affrontare e soluzioni da cercare che vanno ben al di là di un quartiere o di una cittadina. Ma avere progettato in modo sistemico a quel livello permetterà anche di meglio tenere in conto i problemi locali mentre si affrontano quelli globali, via via a livello di regione, di paese, di Unione Europea, di mondo. Ci saranno una infinità di problemi inaspettati da affrontare ma averlo fatto in modo sistemico a livello di un territorio via via sempre più grande, ci permetterà di risolverli senza crearne, contemporaneamente, degli altri magari più gravi.

L’umanità è sempre riuscita a ricostruire il proprio mondo anche dopo le guerre più tremende e a trovare le risorse materiali, tecnologiche, di sapere, oltre all’energia e alla volontà per farlo. Perché non dovremmo riuscirci proprio adesso, che sappiamo che lo dobbiamo fare non solo per noi ma per tutte le generazioni che verranno? Siamo noi ad avere portato l’umanità sulla soglia della distruzione, tocca a noi, come nei dopoguerra del passato uscirne con un mondo del tutto nuovo. E, come nel passato, ne usciremo non più poveri ma più ricchi non solo materialmente ma di sapere e di qualità della vita. Questo dovrebbe dire e fare l’Unione Europea: assumere la leadership politica e morale della “grande ricostruzione ambientale” e con essa verranno anche quella scientifica e tecnologica.

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