Punture di spillo. Un'alleanza contro la povertà di Torino
- a cura di Pietro Terna
- 1 mag
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 1 mag
a cura di Pietro Terna

Grazie a tutti coloro che intendono occuparsi della cosa pubblica e, in questo particolare momento, grazie alle persone che propongono una Alleanza per Torino, nome già noto in Sala Rossa con le elezioni del 1993. Alleanza è una parola molto impegnativa. Per esplorarne i contorni, propongo qualche appunto su Torino, in tre punti: come siamo arrivati qui; in quale stato di salute; con quali progetti possibili. Si tratta di opinioni strettamente personali, forse contropelo per molti, ma espresse con intento costruttivo.
Una Fiat ipertrofica
Torino, per decenni città povera in quanto prevalentemente città operaia, operosa e grigia, ha consentito alla Fiat la sua grande parabola. La Fiat non ha fatto ricca Torino: l’ha invece fatta crescere oltre misura. Agostino Canonica, manager Fiat, tutor di Umberto Agnelli – ora si direbbe coach –, poi presidente della Lancia, raccontò in un libro che si può ancora trovare,[1] come lo stesso Valletta avesse ben compreso, già nel 1951, che l’ampliamento della Fiat doveva avvenire nel Mezzogiorno; invece, ancora nel 1968, con conclusione nel 1971, arriva l’insediamento da 18 mila dipendenti a Rivalta, nella cintura torinese. La Fiat a Torino superò allora i centomila dipendenti diretti.
La parabola non poteva proseguire diversamente? All’inizio degli anni ’70, chi scrive – impiegato all’ufficio studi dell’Unione Industriale – seguiva da vicino i lavori della Fondazione Agnelli, con compiti come la raccolta dati – non c’erano né l’internet, né l’intelligenza artificiale – e, talvolta, la trascrizione in testo scorrevole dei resoconti di dibattiti di economia e società, sempre rivolti al futuro. Non si discuteva direttamente di Torino e della Fiat, ma certo si trattavano temi determinanti per la riflessione aziendale. I dubbi sull’auto come scelta totalizzante, o quasi, di una company e di una companytown qual era Torino, certo affioravano. Quei dubbi provocavano critiche sferzanti dall’interno dell’azienda. Li coglievo, pur ascoltando dal gradino più basso, come molto negativi su quell’esperimento culturale voluto da Giovanni Agnelli.

Da Volponi all'involuzione romitiana
Nel 1975 la direzione della Fondazione fu affidata allo scrittore Paolo Volponi,[2] direttore del personale all’Olivetti da 1966 al 1971 e dal 1972 attivo in Fiat come consulente dei vertici aziendali. Dovrà dimettersi per avere votato comunista, dichiarandolo, e quello fu di fatto il fine corsa per tante vicende. Non in Regione, dove nasceva la giunta Viglione-Libertini e non a Torino, dove diventava sindaco Diego Novelli. Ci fu qualche tentativo di richiamare Volponi, che si negò. All’Unione Industriale arrivò Carlo De Benedetti, (in basso il suo intervento all'UI del 30 aprile 1975, pubblicato il 1° maggio sul Sole-24 ore) presidente poco più che quarantenne, ben consapevole del ruolo di cambiamento che gli competeva, poi andò in Fiat e il seguito lo si legge nei libri. La stagione del cambiamento purtroppo nel mondo dell’industria durò poco.
Cito da un libro recente di Antonio Mosconi,[3] con riferimento al 1974, a p.95: «Il salvatore della patria [Romiti] (…) pose mano agli organigrammi. (…) Non si contano i dirigenti che lasciarono l’azienda oppure furono “sterilizzati” nella seconda metà degli anni Settanta: in pratica tutti coloro che si erano affermati con la prima fase, riformistica, degli Agnelli». L’elenco che segue in quella pagina è impressionante. La normalizzazione colpì la Fiat, creando le solidissime fondamenta della città di poveri che conosciamo ora.

Città di poveri? Sento i commenti: è una esagerazione, suvvia. Non è tanto un’esagerazione! Su 850mila abitanti registriamo oltre 200mila anziani e quasi 150mila stranieri. Difficile misurare il fenomeno con certezza – la stima per il Piemonte è centomila –, ma decine di migliaia di giovani della città non studiano e non hanno un’attività, se non qualche lavoretto saltuario. Vedere per credere, con una passeggiata a Torino Nord. Che cosa manca? L’equilibrio tra la popolazione dell’area, cresciuta a dismisura nei 40 anni in cui l’auto era obiettivo industriale prioritario, e quella produzione che non c’è più. Resta uno spazio economico – da raddoppiare con le due corone di comuni che circondano Torino – che non produce sufficiente ricchezza da distribuire tra i suoi abitanti, da scambiare sotto forma di flussi di merci e servizi in entrata e in uscita con la realtà economica esterna, regionale, nazionale o sovranazionale.

Il turismo? Non è un'illusione, ma neppure la soluzione
Ci salviamo con il turismo? È molto problematico. Propongo un calcolo estremo che mi attirerà molto critiche da parte dei pochi lettori interessati a queste mie provocazioni, ma spero che oltre a criticarmi riferiscano ad altri questo modesto esercizio numerico. Dedotti i pensionati che ricevono dallo stato il loro reddito e altri cittadini che hanno posizioni di lavoro che contribuiscono a produrre beni da vendere all’esterno della città, supponiamo che restino altre 400mila persone che devono scambiare beni con l’esterno, direttamente o indirettamente, secondo lo schema semplice del nucleo produttivo che procura il potere d’acquisto per la comunità interna vendendo buona parte di ciò che produce al di fuori del cortile di casa. Vendiamo turismo, certo, ma se consideriamo di riconoscere a quei 400mila una dotazione di beni dall’esterno di 10mila euro all’anno (poco) il risultato è 4miliardi. Supponiamo ancora che ogni turista che viene da queste parti ci lasci un valore aggiunto di 100 euro (tanto), derivante da un fatturato di almeno 200: servono 40milioni di turisti all’anno. In tutto il Piemonte, all’anno, registriamo un po’ meno di 3milioni di arrivi… Credo non servano commenti.

E allora, Torino o cara, che fare? Se mi svegliassi domattina nei panni del sindaco, prima di tutto tenterei di fuggire lontano… Superato questo impulso, convocherei la Camera di Commercio, le rappresentanze degli industriali, dei commercianti, degli artigiani, degli enti del terzo settore, gli atenei, i sindacati, le banche, le grandi fondazioni e, dopo avere ascoltato – non da tutti – le poco rassicuranti affermazioni sull’auto che c’è ancora, sull’Avio che si conferma, più le novità sulle start up di successo, sul capitolo in sviluppo dell’intelligenza artificiale con AI4I[4] e le enunciazioni sui poteri taumaturgici del PNRR, sul futuro Parco della salute, tirerei il fiato e ruggirei «…perché se tutto è così armoniosamente orchestrato non cacciate i soldi e non investite in quest’area, in campi produttivi adatti e di prospettiva»?
Ritornare a investire
La città, lo sappiamo per certo, ha capitali dormienti importanti. Gli innovatori, negli atenei e al di fuori, non mancano. Che cosa manca? La visione del futuro, le garanzie, la maggior spinta della necessità? Il sindaco di Milano non ha questi interrogativi da porsi e siamo a 40 minuti di treno, quelli che impiego al mattino da casa mia al centro della città.
Allora grazie a tutte le Alleanze che ci aiutano a rispondere e che immagino come nel disegno prodotto con l’IA, questa volta Qwen[5] di Alibaba. Anche il nostro baccelliere di musica è d’accordo ad elaborare il concetto di alleanza e ci offre una conclusione da par suo!

Il concetto di alleanza ha avuto ed ha diverse declinazioni. La Santa Alleanza, la triplice. Più di recente quella nazionale e anche quella democratica. Quest’ultima non la ricorderanno tutti, ma sembrava un bel momento.[6] E che dire, poi, degli alleati, con i quali stavano i partigiani, per ritornare con piacere alla bella pagina della nostra Liberazione. Ecco il concetto importante. Ci si allea per stare da una parte. Generalmente quella ritenuta giusta. Ma le alleanze spesso non sono durature. Cosa che non auguriamo ai volenterosi promotori dell’Alleanza per Torino. Questa città, infatti, ha bisogno di qualcuno che stia dalla sua parte, con speranze, rabbie e libertà (s.r.l.).[7] In questa prospettiva, anche le rock band sono alleanze. In genere si formano quando i componenti sono giovani o addirittura molto giovani. Questo favorisce la creatività, ma implica che si diventi adulti insieme. E siccome i ritmi di crescita sono diversi, ci si ritrova a un bivio. Qualcuno è cresciuto più degli altri. Qualcun altro è invecchiato anzi tempo. E allora si dice «this band has to disband». E amici (o nemici) come prima. Non sempre però. C’è anche chi continua. I Rolling Stones lo fanno da più di sessant’anni. Con un po’ di stanchezza, Mick Jagger è ancora lì a cantare Time is on my side.[8] Come gli scettici sospendiamo il giudizio, ma l’augurio all’Alleanza per Torino è di essere duratura e, soprattutto, mai stanca. Un po’ come i musicisti del Modern Jazz Quartet e le loro improvvisazioni in bilico fra blues e fughe.[9]
Note
[1] A. Canonica (1978), Imprenditori contestati, Franco Angeli, pp. 45-46.
[3] A. Mosconi (2024), Il giusto peso – Un dirigente Fiat dalle suore tedesche a San Vittore, Europa Edizioni. Con una preziosa prefazione di Paolo Griseri,
[4] Meno male che c’è: https://ai4i.it
[6] Aprirono il loro congresso con Adelante, adelante! di Francesco De Gregori https://youtu.be/RCVvqTd7BM0?si=c7FWngKTGt3FJ1m1













































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