"Disertiamo il silenzio": rumore per salvare Gaza e i palestinesi
- Piera Egidi Bouchard
- 25 lug
- Tempo di lettura: 4 min
di Piera Egidi Bouchard

Domani, 27 luglio, alle ore 22, chi ha ricevuto e può farlo, si farà sentire con l’iniziativa umanitaria “Gaza muore di fame: disertiamo il silenzio”, promossa dalla rete ”L’ultimo giorno di Gaza”: Facciamo suonare a distesa le campane dei palazzi comunali, quelle delle chiese e ogni sirena possibile: ambulanze, navi, barche, porti. Suoniamo ogni fischietto, battiamo le pentole. Facciamo più rumore, più chiasso, più fracasso possibile. Facciamolo insieme nelle piazze e sulle spiagge. Facciamolo sui balconi e alle finestre. Facciamolo sui social. Facciamolo dappertutto".
Iniziativa nobile, ma di difficile realizzazione, penso. Eppure faremo anche questo, nella disperazione dell’impotenza in cui ci sentiamo avvolti. La gente che incontri per strada è senza sorriso, triste, preoccupata, nonostante il diluvio di spettacoli e balletti televisivi, e trasmissioni di sport. Ma le strazianti immagini dei telegiornali le vediamo tutti. I giornalisti, gli inviati, fanno un buon lavoro, nonostante gli sia interdetto l’accesso ai luoghi di guerra, e sono molti ad aver pagato con la vita.
Ricevo un forte e denso comunicato milanese dall’ANED – l’Associazione nazionale degli ex-deportati nei campi nazisti - di cui riassumo qualche parte: “Appare chiaro ormai al mondo intero che la prosecuzione di questo massacro ha soltanto un duplice obiettivo, quello di mantenere al potere un premier inquisito e bocciato dai sondaggi nel suo stesso paese, e quello di dare libero sfogo alle destre più reazionarie protagoniste di innumerevoli aggressioni contro la popolazione araba in Cisgiordania, una destra che non fa mistero di sognare la Grande Israele che nascerebbe dall’occupazione stabile della Cisgiordania e della striscia di Gaza, con la conseguente deportazione di milioni di palestinesi.”
Scriveva Natalia Ginzburg, scrittrice ed ebrea, in un articolo su “La Stampa” del 14 settembre 1972: “Dopo la guerra, abbiamo amato e commiserato gli ebrei che andavano a Israele pensando che erano sopravvissuti a uno sterminio, che erano senza casa e non sapevano dove andare. Abbiamo amato in loro le memorie del dolore, la fragilità, il passo randagio e le spalle oppresse degli spaventati. Questi sono i tratti che amiamo oggi nell’uomo. Non eravamo affatto preparati a vederli diventare una nazione potente, aggressiva e vendicativa. Speravamo che sarebbero stati un piccolo paese inerme, raccolto, che ciascuno di loro conservasse la propria fisionomia gracile, amara, riflessiva e solitaria. Forse non era possibile. Ma questa trasformazione è stata una delle cose orribili che sono accadute. (...) Gli uomini e i popoli subiscono trasformazioni, rapidissime e orribili. La sola scelta che a noi è possibile è di essere dalla parte di quelli che muoiono o patiscono ingiustamente. Si dirà che è una scelta facile, ma forse è l’unica scelta che oggi ci si offerta".
“E’ davvero ora di dire BASTA a tutto questo – prosegue il comunicato dell’Aned – Il massacro dei civili deve terminare; gli ostaggi vanno restituiti alle loro famiglie; gli aiuti alimentari devono essere distribuiti nella Striscia; i criminali di guerra israeliani e di Hamas vanno condotti di fronte all’Alta Corte di Giustizia dell’Aia. Il mondo civile non può ammettere anche solo che si immagini la deportazione di milioni di civili palestinesi per fare spazio ai deliri messianici della destra oltranzista messianica".
Un lontano ricordo storico, a cui rivado a memoria: nella fine del 1800 una carestia si abbatté sulle Valli valdesi, e quei contadini e montanari, già messi alla prova dai pochi viveri strappati a un terreno impervio e debilitati da secoli di persecuzioni, furono costretti ad andarsene e abbandonare le loro case e i loro orti: con inenarrabili difficoltà si imbarcarono per l’America, e, arrivati infine in una pianura disabitata del North Carolina, fu loro concesso di stanziarsi, e lì fu fondato un villaggio che poi piano piano divenne una città, dal nome significativo: Valdese, che ora conta circa 4.500 abitanti, e le cui vie e il cui cimitero nelle lapidi contiene il nome degli antichi coloni valdesi lì emigrati, come Giraud, Pons, Tron, Micol, Richard, Guigou, Refour, io li ho visti. E i cui discendenti mantengono tuttora i rapporti, gli usi e gli affetti con la madrepatria.
“Fight or fly”, è una massima degli psicologi di fronte ai conflitti: se sono insormontabili – per infinite ragioni, è meglio andarsene, trovare una nuova vita. Due popoli due stati non credo sia più realizzabile: andava promosso anni fa, ma le potenze internazionali se ne sono disinteressate, lasciando marcire le cause del conflitto. Siamo tutti colpevoli.
E adesso che fare? Promuovere ancora una politica di accordi, per ora a parer mio impossibili: troppo sangue versato, troppi odi, troppa violenza, troppo macello. Stare ancora a vedere giorno dopo giorno da ogni telegiornale la gente bombardata, affamata, i bambini mutilati e morti di denutrizione? Non sarebbe meglio, molto meglio salvare le vite di chi vuole andarsene, le famiglie con vecchi e bambini, ora intrappolate ad essere facili bersagli inermi e indifesi. Mandiamo le navi, gli aerei, facciamo potenti corridoi umanitari, portiamoli via, chi vuole salvarsi. Troviamo nazioni e luoghi che li accolgano. Non è impossibile. Finito tutto, si vedrà. E intanto una gigantesca Norimberga aspetta i macellai delle due parti.













































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