Dazi: quante divisioni ha la signora Ursula von der Leyen?
- Stefano Rossi
- 28 lug
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 31 lug
di Stefano Rossi

L’accordo sui dazi annunciato ieri da Donald Trump e da Ursula von der Leyen appare come una disfatta per gli europei e ci spinge a chiederci come siamo arrivati a questo punto. Addebitare ai negoziatori europei la responsabilità di questo accordo è una risposta insoddisfacente sotto diversi punti di vista. La realtà è che con questo accordo, il “vassallaggio dolce” dell’Europa rispetto agli USA è diventato un “vassallaggio amaro”, ma sempre tale rimane. Proviamo a rifletterci sopra.
Ogni accordo formalizza i rapporti di forza tra le due parti. Un accordo all’interno di un sistema giuridico costituito (diciamo tra cittadini o imprese di uno Stato) avviene nel rispetto della legge, garantita da un soggetto che è in grado di farla rispettare e la rende vincolante. Ci sono accordi che non possono essere raggiunti, perché la legge difende la parte debole e rende illegale un accordo che conceda alla parte forte una risultato eccessivamente vantaggioso. Per questo, un accordo concluso in un sistema di leggi non rappresenta quasi mai interamente i reali rapporti di forza tra le parti, ma piuttosto un bilanciamento che poggia su tutele inscalfibili a difesa della parte debole.
Al contrario, in un sistema in cui non si riconosce nessuno al di sopra delle parti, in cui non c’è legge che sia fatta rispettare da una forza pubblica, ogni accordo è lecito e rappresenta esattamente i rapporti di forza tra le parti in causa. Il nuovo sistema internazionale voluto da Trump – e accettato di buon grado da praticamente tutta la comunità internazionale – conseguente alla progressiva demolizione del diritto internazionale e delle organizzazioni che lo promuovono, è proprio questo secondo tipo di sistema: uno stato di anarchia internazionale dove vige solo il perseguimento dell’interesse nazionale, sopra ogni valore o principio.
Ma veniamo all’Europa. L’accordo annunciato dai leader degli USA e dell’UE non deve essere visto come un indebolimento dell’Europa verso gli Stati Uniti, ma piuttosto come una cristallizzazione dei rapporti di forza esistenti tra le due parti. Il merito del presidente americano è stato di svelare la realtà, chiarire lo stato di fatto, cioè una verità nota: l’UE e i suoi Stati membri sono dipendenti dagli Stati Uniti e pagano loro un tributo (tale è un dazio asimmetrico) in cambio di una protezione militare.
L’UE, intesa come sistema composito dei governi nazionali e del governo europeo, non è in grado, oggi, di garantire la propria sicurezza da sé, né lo è stata negli ultimi 80 anni. La scelta di delegare la sicurezza agli Stati Uniti è stata vincente per molti decenni, perché ha garantito all’Europa il “dividendo della pace”. E, infatti, mentre l’integrazione europea poneva le basi per bandire la guerra tra gli Stati membri, la protezione a stelle e strisce garantiva la loro sicurezza esterna. Il risultato, come si ripete spesso, è un periodo di pace e prosperità eccezionalmente lungo, una crescita economica senza precedenti, la costruzione di un modello di protezione sociale (con tutti i suoi limiti e contraddizioni) che non ha eguali al mondo, la democratizzazione di Paesi che uscivano da dittature (Spagna e Portogallo).
Ma il mondo in cui gli USA garantivano la sicurezza europea come una forza pubblica lo fa con i propri cittadini (il c.d. gendarme del mondo) è finito. Ne abbiamo avuto le avvisaglie da almeno 20 anni, ma si è scelto di mettere la testa sotto la sabbia. Di fronte al progressivo disimpegno americano dallo scenario europeo, i governi nazionali, temendo che il tentativo di creazione di una difesa comune europea avrebbe accelerato questo ritiro, hanno scritto nero su bianco nel Trattato di Lisbona (2009) che “la politica di sicurezza e di difesa comune comprende la graduale definizione di una politica di difesa comune dell’Unione. Questa condurrà a una difesa comune quando il Consiglio europeo [ossia l’organo composto dai 27 capi di governo] deliberando all’unanimità avrà così deciso” (art. 42, comma 2 Trattato UE). In altre parole: sulla difesa decidono gli Stati membri, che valuteranno – all’unanimità – se e quando ci saranno le condizioni per creare una difesa comune. Intanto, “gli impegni e la cooperazione in questo settore rimangono conformi agli impegni assunti nell’ambito dell’Organizzazione del trattao del Nord-Atlantico [la NATO] che resta, per gli Stati che ne sono mebri, il fondamento della loro difesa collettiva e l’istanza di attuazione della stessa” (art. 42, comma 7 Trattato UE). Regole scritte e firmate da tutti gli Stati membri – non di certo dalla Commissione europea che al Trattato UE è sottoposta.
A prescindere dal giudizio sulla scelta di delegare la propria sicurezza a un soggetto esterno, è un dato di fatto che oggi i rapporti di forza tra USA e UE sono del tutto sbilanciati. È pur vero che questi rapporti possono essere descritti in termini di interdipendenza – ossia di dipendenza reciproca – ma la dipendenza degli USA dall’UE è una dipendenza relativa e marginale (gli USA sopravvivono senza l’UE), quella dell’UE dagli USA è assoluta ed esistenziale (l’UE e i suoi Stati membri non sopravvivono senza gli USA): senza l’ombrello nucleare americano, il sistema di basi sul suolo europeo, il contributo americano alla NATO, l’intelligence americana, il suo sistema satellitare, il suo sistema di difesa aereo, la fornitura di dotazioni che ancora gli europei non sono in grado di produrre, l’UE e i suoi Stati membri sarebbero del tutto impreparati ad affrontare un potenziale conflitto non solo con una potenza nucleare, ma anche con una potenza convenzionale ben equipaggiata.
In questo quadro, se Trump avesse preteso dazi al 30%, 40% o 50%, a Ursula von der Leyen non sarebbe rimasta altra scelta che accettare. Se Trump pretende che gli Stati europei non sanzionino Israele mentre commette un genocidio, questi lo accettano. Non ci sono richieste che gli USA non possano ottenere, in questo momento storico, dall’Europa: questa non è la valutazione personale, ma quella che i governi europei stanno, al momento, manifestando. Se la Presidente della Commissione Europea ha trattato con Trump cercando un compromesso, è perché tutti gli Stati membri erano d’accordo (e pure questo è un evidente elemento di debolezza del potere europeo, cioè che in politica estera risponde ancora all’unanimità dei 27 Stati membri).
C’è stata la consapevolezza da parte dei governi che un’escalation avrebbe condotto a danni maggiori, perché il peso negoziale dell’Europa è tanto più debole quanto più ci si avvicina a scenari estremi. E sono le capacità di affrontare gli scenari estremi (lo stato di eccezione) a definire i rapporti di forza, anche quando si parla di accordi “pacifici” come quelli commerciali. Se gli Stati membri avessero deciso di adottare una strategia diversa, la Commissione l’avrebbe seguita. Ma così non è stato.
Queste brevi considerazioni ci ricordano che la politica estera è un concetto ampio, che comprende gli strumenti commerciali, i trattati internazionali, le alleanze, la diplomazia e tutti i livelli dello strumento militare, dalla deterrenza alle provocazioni, dalle minacce alle invasioni. Non ci sono vere differenze concettuali tra i diversi strumenti di politica estera, tutto è parte di un unico concetto: la proiezione esterna dello Stato. Nel mondo dei rapporti tra entità sovrane (il mondo che il pensiero federalista cerca di superare), non si passa dalla diplomazia alla guerra: la diplomazia è guerra in potenza, la guerra è diplomazia in azione.
La brutalità dell’anarchia internazionale è un concetto a cui noi europei faremmo bene ad abituarci. Solo comprendendola a fondo, si può sperare che l’UE si emancipi dal potere americano. E una volta che abbia raggiunto un’autonomia strategica europea, che questa sia utilizzata dal governo europeo per ricostruire un mondo basato su regole e non più su crudi rapporti di forza.
Quante divisioni ha il Papa? Con queste parole Stalin, capo indiscusso dell'Unione Sovietica, al vertice di Yalta, in un mondo che aveva appena vissuto la guerra totale, cioè la realizzazione più pura della proiezione esterna dell’interesse nazionale, avrebbe chiesto ironicamente per pesare l’importanza politica del Vaticano. Nel mondo di oggi, che recupera l’interesse nazionale come unica guida, la stessa domanda potrebbe rivolgersi all’UE: quante divisioni ha Ursula von der Leyen?













































Commenti