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Alla vigilia di COP 30, storia e futuro del Green Deal europeo

Aggiornamento: 9 nov

di Stefano Rossi

 

@European Union
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Domani, 10 novembre, si apre a Belem, porta d'ingresso dell'Amazzonia brasiliana, COP 30, la Conferenza delle Parti che sarà guidata dall'Ambasciatore André Corrêa do Lago. Nella sua nona lettera, il presidente di COP 30 ha invitato governi e istituzioni a proseguire nella cooperazione globale sulla scia dell'accordo di Parigi, che ha dato risultati positivi. Ma occorre velocizzare gli interventi, come ha sottolineato ancora, perché a Belém il vertice ONU si svolge "nell’epicentro della crisi climatica" non a caso ospitato in Amazzonia, uno degli ecosistemi più vitali del pianeta che non si riesce a preservare con la dovuta attenzione. Alla Conferenza delle Parti aderiscono 197 Paesi più l'Unione Europea. Ed è sulle politiche ambientali della UE, e in particolare sul Green Deal, che fa il punto Stefano Rossi.


È il giugno 2019 quando il Consiglio europeo, presieduto dal polacco Donald Tusk, adotta una nuova agenda strategica che ha tra i suoi obiettivi principali quello di costruire un’Europa verde, equa, sociale e con impatto climatico zero. Con l’avvio della nuova legislatura 2019-2024, gli obiettivi green diventano una priorità della Commissione, sostenuti dall’impulso unanime dei capi di governo e dal diffuso consenso tra le forze sociali e politiche europee.

La situazione è molto diversa da quella odierna: prima del Covid, prima delle guerre, l’Europa esce da un decennio difficile, aperto con la crisi dei debiti sovrani, l’attacco all’Euro, la Brexit e la prima elezione di Donald Trump. Ma negli ultimi anni del decennio si respira un’aria di ritrovato ottimismo: le politiche di austerità sono ormai allentate, i traballanti bilanci pubblici messi in ordine dopo anni di sacrifici, lo spazio fiscale ritrovato per nuovi investimenti e politiche sociali (in Italia ricordiamo il reddito di cittadinanza e il consistente taglio delle tasse agli autonomi con la flat tax di Salvini). Non sappiamo di essere a pochi mesi da una pandemia che avrebbe sconvolto le nostre vite (e i mercati). La prospettiva della guerra in Ucraina è lontana anni luce, figuriamoci il conflitto di Gaza. Il problema principale della BCE è che l’inflazione è troppo bassa, e nonostante la enorme massa di denaro immesso nel sistema si fatica a raggiungere il target del 2%. In pochi avrebbero scommesso che a ottobre 2022 l’inflazione avrebbe superato il 10% e che il problema sarebbe stato riportarla a livelli accettabili.  

In questo quadro, l’emergenza climatica è percepita dagli europei (a ragione) come una minaccia seria e urgente, dopo che il 20 agosto 2018 una quindicenne svedese decide di saltare la scuola e andare a protestare davanti al parlamento di Stoccolma, dando inizio agli scioperi per il clima (Skolstrejk För Klimatet). Neanche un anno dopo, un’onda verde di proteste occupa allegramente le piazze di tutta Europa sotto l’insegna dei Fridays for Future.

Alle elezioni europee del 2019 i parlamentari europei, direttamente eletti, trovano una forte maggioranza a sostegno del primo mandato di Ursula von der Leyen composta da un centro solido, un agguerrito drappello verde e un folto gruppo socialista. Ed è proprio un socialista, Frans Timmermans, che diventa il promotore del Green Deal Europeo. Olandese, gran tifoso della Roma per aver vissuto nella capitale in gioventù, Commissario al Clima e Vice Presidente Esecutivo della Commissione Europea, Timmermans sarà per anni l’immagine delle politiche green dell’Unione Europea. E l’incubo dei sovranisti e dei negazionisti della crisi climatica (inizialmente polacchi e ungheresi, poi sparsi un po’ in tutta Europa).

Gli obiettivi del Green Deal Europeo sono ambiziosi, secondo alcuni troppo, secondo altri troppo poco, ma certamente segnano un cambio di passo per l’Europa nel cammino verso un futuro più sostenibile. Neutralità climatica entro il 2050, riduzione del 55% delle emissioni di gas serra entro il 2030, economia circolare, tutela della biodiversità. I capitoli del Green Deal sono molto numerosi, come i settori interessati e le politiche collegate a questo grande piano di sistema: agricoltura, industria, energia, trasporti, e tutte le misure che ricadono sotto il concetto di “transizione giusta”.

Proprio su questo capitolo, cioè la sostenibilità sociale della transizione verde, l’UE investe ingenti risorse, creando un Fondo per la transizione giusta che tuttavia, secondo molti, non mobilita risorse sufficienti, anche perché gli Stati membri non sono d’accordo ad aumentare le risorse del bilancio europeo.

Cinque anni e tanti eventi traumatici dopo, arriviamo al 2024 con la chiusura di una legislatura che ha fatto delle politiche green la propria priorità: la Nature Restoration Law, una legge europea che punta a ripristinare gli habitat degradati in Europa, viene approvata dal Consiglio ambiente dell’UE grazie al voto decisivo della ministra austriaca, che contro le aspettative va contro l’orientamento del proprio governo e decide di seguire la propria coscienza. L’ultimo atto di un percorso che sembra giunto al termine: i cittadini europei tornano alle urne e cambiano le priorità politiche dell’Unione. Difesa, sicurezza esterna, autonomia strategica, inflazione diventano presto le nuove parole d’ordine. Alla minaccia climatica si sostituisce quella geopolitica, con un’Europa fragile in un mondo sempre più pericoloso.

È difficile, forse impossibile, tracciare un bilancio del “quinquennio green” che va dal 2019 al 2024. L’European Green Deal non è stato un fallimento, anzi molti dei suoi obiettivi sono stati raggiunti e addirittura superati. Ma è difficile dire che sia stato un completo successo, viste le resistenze che ha trovato nella società europea e i contraccolpi politici che sembra avere – a torto o a ragione – provocato.

Quello che si può dire con certezza è che l’Europa ha vissuto un periodo in cui tutte le principali forze politiche e tutti i governi nazionali hanno sostenuto una missione ambiziosa, quella di fare dell’UE l’avanguardia delle politiche green a livello globale. I risultati non si vedono soltanto in Europa, dove la direzione tracciata si continua a percorrere, anche se forse con meno entusiasmo di prima, ma anche nel resto del mondo. Specialmente in Asia, dove la sfida lanciata dall’Europa è stata raccolta con convinzione e i passi avanti verso la sostenibilità ambientale sono stati significativi. Il che è particolarmente importante, se si considera che la sfida climatica interessa tutta la comunità umana e non i singoli Stati, e che i successi sono tali soltanto se vengono raggiunti a livello globale.

Arrivando ai giorni nostri, il Consiglio ambiente dell’UE riunitosi il 5 novembre scorso ha trovato un accordo sul taglio delle emissioni nocive del 90% entro il 2040, con qualche flessibilità legata a una clausola di revisione biennale e alla possibilità di raggiungere l’obiettivo utilizzando (per un massimo del 5%) i “crediti internazionali” creati a Kyoto nel 1997.

L’UE porterà questo obiettivo ambizioso alla prossima Cop30 in Brasile, a Belem, tentando di proporsi nuovamente come leader mondiale negli impegni alla riduzione delle emissioni.

Insomma, c’era una volta il Green Deal, ma in fondo c’è ancora. Un po’ cambiato, forse rallentato, ma di certo non è morto. Come tutte le politiche nuove, anche quelle green hanno manifestato problemi e contraddizioni nella fase della loro esecuzione. Come europei, e come cittadini del mondo, dovremmo concentrarci sulle lezioni che possiamo trarre dai nostri fallimenti, piuttosto che sulla rottamazione frettolosa di politiche che vanno migliorate, non abbattute. Anche perché il cambiamento climatico non scomparirà nell’arco di una legislatura: insieme ai grandi problemi del mondo, accompagnerà le nostre vite e quelle delle generazioni a venire.

 

 

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