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Stupro in tv: quando la vittima si ribella alla violenza-spettacolo

di Emmanuela Banfo

Le regole che il giornalismo si è dato nel trattare di violenza sessuale sono acclarate, scritte nero su bianco sul Testo Unico dei Doveri del Giornalista, legge dello Stato dal 2016, integrata tre anni dopo con altri articoli di cui uno specifico sul tema, il 5bis e sostanziate dal Manifesto di Venezia che nel 2017, rifacendosi alla Convenzione di Istanbul, fa dell’informazione il motore di una rieducazione culturale imperniata sulla parità di genere, dei diritti umani. "Il diritto di cronaca - a un certo punto si legge sul Manifesto - non può trasformarsi in un abuso".

Ma come può essere all’altezza di questo compito un’informazione sempre più emozionale, sempre più alla ricerca di sensazioni forti allo scopo di suscitare nel pubblico commozione, rabbia, odio, senso di vendetta, in un crogiuolo di pulsioni che vanno dall’identificazione, ora nella vittima, ora nel carnefice, alla estraneità, del tipo ‘io non c’entro, la cosa non mi riguarda’? Un processo che favorisce l’assuefazione e che investe non soltanto la cronaca sui drammatici casi di femminicidio. Ogni evento viene trasformato in un reality, anche la guerra, anche l’alluvione o il terremoto.

La narrazione in voga è quella della story-telling strettamente dipendente dall’audience, del successo dell’evento messo in scena. Il web ha amplificato e accelerato queste dinamiche. Con un dato aggiuntivo: chi viaggia in rete, chi si serve dei social, non solo ascolta, legge, partecipa al prodotto, ma è autore, soggetto, promotore. La rete dà la sensazione di essere protagonista, di tenere in mano il volante della macchina, di essere in grado di dirigerla verso il fine prefissato, di manovrarla a piacimento.

Può essere questa sensazione ad aver mosso la giovane palermitana stuprata dal branco dopo una serata in discoteca ad andare in televisione a raccontarsi, a viso aperto, durante una puntata di ‘Avanti popolo’ su Rai2? In apparenza nella mediatizzazione di questa ennesima storia tremenda i giornalisti, gli operatori professionisti dell’informazione non c’entrano. In apparenza hanno fatto tutto loro, i diretti protagonisti. Prima gli aguzzini che chattando, socializzando in rete, hanno dettagliato l’accaduto; poi lei che, sempre sui social, ha denunciato, ha accusato, ha svelato la bruttura di quanto ha subito.

Se le norme deontologiche del buon giornalismo impongono di tutelare la donna vittima di violenza non rivelandone l’identità, non soffermandosi sui particolari scabrosi, gettandoli in pasto a quell’opinione pubblica voyeuristica, che guarda dal buco della serratura, moralista e benpensante da vizi privati e pubbliche virtù, in questa vicenda la rete è stata la grande vetrina senza scrupoli, senza riguardi. Perché tutelare la riservatezza di chi non intende servirsene? Perché imporre l’anonimato, oscurare il volto, di chi invece intende uscire allo scoperto? Perché è minorenne? No, se pur di poco è maggiorenne. Perché soffre di disagio psichico, è oggettivamente in condizioni di minorità fisica o mentale? No, anzi appare consapevole, cosciente dei suoi atti. E allora perché porsi problemi? Per almeno tre motivi.

Primo. Giornali e televisioni, con la scusa che frasi orrende, offensive, lesive di qualsiasi dignità umana erano già state messe in rete dal branco, ne hanno dilatato il raggio d’azione, le hanno conferito rispettabilità e decenza, facendole rientrare nel diritto di cronaca, facendole assurgere al grado di notizie, dando loro un decoro, una funzione di interesse e utilità pubblica e sociale che non hanno, anzi sono frasi altamente diseducative e potenzialmente foriere di emulazione.

Il Testo Unico è molto chiaro in proposito, non soltanto quando invita alla continenza del linguaggio, ma soprattutto quando obbliga ad applicare i principi deontologici a tutti gli strumenti di comunicazione, compresi i social network. La pubblicazione sui social di esternazioni di odio e violenza, di svalorizzazione e umiliazione della persona, non legittima affatto la loro reiterazione da parte dei media mainstream. Tutti ricordiamo Umberto Eco quando nel 2015 disse che i social danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar. L’invito, insomma, è quello di lasciare che continuino a parlare solo al bar, anche se si chiama Internet.

Secondo. Quando una rete di informazione pubblica si assume la responsabilità di svolgere un ruolo che è anche, che piaccia o no, di formazione e si spera di crescita della coscienza civile collettiva, deve sentirsi più in dovere di altri ad auto-limitarsi, se occorre. Appare provocatorio affermarlo, sentiamo odore di censura e qualcosa in noi si ribella. Ma a volte bisogna avere il coraggio di non inseguire lo scoop, di non fare quell’intervista o di non pubblicare quella fotografia, se c’è anche solo una remota possibilità che sia offensiva, irrispettosa della persona.

Terzo. Per non restare imbrigliati nella macchina mediatica bisogna conoscere le istruzioni per l’uso, avere abilità che il comune cittadino non possiede. Dev’essere il professionista dell’informazione a tutelare chi non ha gli strumenti per tutelarsi da sé rispetto all’esposizione mediatica. Così come la Carta di Roma chiede a chi opera nel giornalismo di non approfittare, per esempio, della disponibilità del migrante a farsi intervistare, ma di prestare attenzione alla sua oggettiva situazione di disagio e fragilità, con la medesima cautela e sensibilità si deve agire nei confronti di una giovane donna violentata che forse, proprio per il trauma, la sofferenza di cui è portatrice, ha bisogno di sostegno e di un aiuto effettivo che non sia quello di apparire in tivù.

Fino a che punto questa ragazza, bella come il sole, con i suoi occhioni e la cascata di riccioli castani, conosce la macchina su cui è salita? Una domanda, una perplessità sorge spontanea dopo averla vista sicura di sé davanti allo schermo, senza un fremito nella voce, senza una lacrima perché forse le ha già versate tutte. Se davvero abbia messo in conto l’effetto boomerang di cui il piccolo schermo può essere capace, trasformandola da parte lesa di uno dei crimini più orrendi che l’umanità conosca ad abile ragazza che sa il fatto suo. Se davvero sa che i riflettori come si accendono così si spengono e domani un altro fatto sarà in prima pagina. E lei ritornerà nell’ombra, più sola di prima.

Perché, oltre le leggi, le norme deontologiche, c’è lei, la ragazza che ha agito in barba a quelle leggi e a quelle norme. Vittima inconsapevole di un’altra, invisibile e melliflua violenza, quella dei media? Oppure onestà intellettuale chiede di non escludere un’ennesima possibilità che ci interroga sottoponendo al vaglio delle spirito critico le nostre stesse certezze, com’è giusto che sia e che così di rado avviene: che questa ragazza abbia insegnato al branco, ma anche a noi, che lei l’abito di vittima non lo vuole proprio e che niente e nessuno potrà strapparle il futuro. Niente e nessuno potrà annientarla, ridurla a gatta e carne da macello come i torturatori l’hanno descritta. Che lei, grandi occhioni e cascata di riccioli, non ha timore a mostrarsi a testa alta, a chiedere di essere aiutata a trovare un lavoro per essere autonoma – ha spiegato – per mantenersi gli studi all’università, magari psicologia per essere utile a tutti coloro, vittime e carnefici, che nel buco nero della violenza sono stati inghiottiti perdendo la loro umanità.

Non le servono tutele e protezioni, ma le serve una società capace di rispondere alla violenza mettendo in atto energie nuove, vitali, di riscatto per chi quella violenza l’ha vissuta sulla propria pelle, ma non è riuscita a sconfiggerla, a spegnere la speranza che è in lei. La sua scelta va rispettata. Da parte nostra un solo dovere: non deludiamola.

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