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PIANETA SICUREZZA. "Sicuro è morto", tutto il resto è illusione

di Nicola Rossiello


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Il tema della sicurezza è, ormai da un trentennio, strettamente correlato all'immigrazione, il faro della politica; merce spendibile e buona per ogni stagione nei programmi elettorali, nei titoli dei giornali, nelle conversazioni tra persone. Raccontiamo e presentiamo la sicurezza come un obiettivo tangibile, un traguardo che, con giuste risorse, leggi e controlli, potremmo raggiungere facilmente. Accade, però, che più la inseguiamo e più essa sembra sfuggirci, trasformandosi in un fantasma politico, in uno strumento di consenso o di paura, proprio perché stiamo inseguendo un fantasma.

L’idea di una società totalmente sicura è solo una pericolosa illusione, un'illusione che ci spinge fino a scambiare libertà con false garanzie, a vivere in uno stato di allerta permanente, e a dimenticare una verità elementare, racchiusa in una vecchio espressione della cultura operaia, ovvero che “sicuro è morto!”.

È una definizione, nata probabilmente in officina o in cantiere, ma non è una cinica provocazione, piuttosto un monito di profonda saggezza pratica. Significa che l’unico stato in cui non esiste alcun rischio, in cui non esiste alcuna possibilità di incidente, di danno o imprevisto, è quello dell’inerzia totale. Tutto ciò che è vivo, invece, che si muove, che interagisce, che progredisce, porta con sé un livello di rischio intrinseco. Applicare questo principio al corpo sociale è l'unica risposta plausibile.

Una società completamente “sicura” nel senso assoluto del termine sarebbe una società immobile, controllata, chiusa, senza innovazione, senza spontaneità, senza vita pubblica vibrante. Sarebbe, in buona sostanza, una società morta che per definizione non può certo porsi alcun problema...

Ecco, l’ossessione contemporanea per la sicurezza assoluta spinge tutti noi proprio verso quella direzione. Il nostro è un contesto iper-politicizzato, strumentalizzato a fini elettorali e la sicurezza diventa un campo di battaglia nel quale ogni evento è trasformato in munizione. Un'aggressione in strada non è più un fatto drammatico da affrontare con strumenti sociali e di polizia, ma diventa la “prova definitiva” del fallimento di un intero schieramento politico. E la richiesta di maggiori telecamere, pattuglie, leggi speciali e limitazioni alla privacy diventa l’unica risposta politicamente spendibile, a prescindere dalla sua efficacia reale o dai suoi effetti collaterali.

Questa corsa folle crea una grave distorsione della percezione perché un bombardamento mediatico e politico centrato sui singoli episodi di cronaca nera, seppur gravi, alimenta un senso di pericolo sproporzionato rispetto ai dati reali, portando i cittadini a sopravvalutare enormemente i rischi che corrono. Viviamo così in una “realtà della paura”, non nella realtà dei fatti, e poi, barattiamo i nostri residui frammenti di vita democratica con la promessa di una protezione totale che non arriverà mai, né può esistere.

Allora, se “sicuro è morto”, qual è l’alternativa? Dobbiamo arrenderci al caos? Tutt’altro. L’alternativa è passare dall’ideologia della sicurezza assoluta ad una pragmatica gestione del rischio e della paura. Questo cambiamento di prospettiva è radicale e ha un effetto liberatorio, ma richiede onestà intellettuale. I politici e le istituzioni dovrebbero rinunciare a "vendere" sicurezza come un prodotto finito e parlarne in termini di probabilità, di contesti, di trade-off. Dovrebbero ammettere pubblicamente che vivere in una società libera e aperta comporta un livello di rischio residuale, e che il compito dello Stato non è eliminarlo totalmente, ma renderlo accettabile attraverso interventi mirati.

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