La Stanza del pensiero critico Un debito ecologico nascosto
- Savino Pezzotta
- 19 ore fa
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di Savino Pezzotta

Una parte rilevante della crescita economica degli ultimi decenni è stata ottenuta accumulando un enorme debito ecologico. Sono costi che non compaiono nei bilanci pubblici, né nei conti delle imprese, ma che prima o poi qualcuno dovrà pagare. La crescita si è spesso basata sullo sfruttamento intensivo delle risorse naturali – suoli, acqua, foreste, pesca – e su attività che hanno contribuito alla crisi climatica e ambientale globale.
La crisi climatica come svolta storica
Tradurre questi danni in cifre precise è difficile, ma gli effetti sono evidenti: alluvioni, siccità, ondate di calore, eventi meteorologici estremi. La crisi climatica non è più un tema separato dal resto della vita sociale ed economica: segna un cambiamento profondo del nostro tempo. Il mondo naturale, a lungo considerato uno sfondo neutro, si manifesta oggi come una forza che sfugge al controllo umano e mette in discussione l’idea moderna di dominio e pianificazione totale.
I costi della crisi ambientale non sono astratti. Si traducono in disuguaglianze crescenti, in fragilità sociali che si aggravano, in nuove forme di ingiustizia. A pagare il prezzo più alto sono i gruppi più vulnerabili, mentre chi dispone di risorse economiche può proteggersi meglio o spostarsi altrove. La pressione climatica favorisce inoltre risposte autoritarie e politiche emergenziali che restringono gli spazi democratici invece di rafforzarli.
La crisi ambientale produce anche effetti meno visibili ma profondi: ansia, senso di impotenza, perdita di fiducia nel futuro. Cambiano le condizioni del lavoro, della convivenza e della vita collettiva. I costi umani non possono essere considerati effetti collaterali inevitabili, ma il risultato di scelte politiche, economiche e sociali che possono essere ripensate.
L’Italia e il ritardo della transizione
Nonostante la gravità della situazione, l’Italia continua a muoversi in ritardo. La transizione ecologica viene evocata spesso, ma senza una strategia coerente. Dietro il linguaggio “verde” riaffiorano vecchi modelli: lavoro precario, territori dimenticati, dipendenza dalle fonti fossili. Il PNRR, invece di una svolta, si è tradotto in un insieme frammentato di interventi poco coordinati.
I dati sull’occupazione appaiono incoraggianti, con oltre 24 milioni di occupati e una disoccupazione intorno al 6%. Ma questa fotografia nasconde fragilità strutturali: contratti instabili, salari bassi, scarsa partecipazione di giovani e donne. I green jobs esistono, ma restano limitati e spesso temporanei. Senza formazione e riconversione, la transizione rischia di fermarsi.
Il nodo più critico resta la politica energetica. Di fronte all’urgenza climatica, il governo tende a rifugiarsi nelle soluzioni del passato, riproponendo gas e fonti fossili come risposte rapide. Le energie rinnovabili avanzano lentamente, frenate da burocrazia, ritardi e mancanza di una visione di lungo periodo.
Il rischio di un logoramento sociale
Anche il sindacato appare spesso in difficoltà. La contrattazione resta concentrata su salario e orari, mentre temi decisivi come riconversione produttiva, formazione ambientale e governo dei territori restano marginali. La transizione viene subita più che guidata, con effetti negativi soprattutto per lavoratori fragili, giovani e donne.
La combinazione di debolezza politica e timidezza sindacale apre il rischio di un logoramento sociale progressivo: precarietà diffusa, sfiducia nelle istituzioni, divari territoriali crescenti, in particolare nel Mezzogiorno e nelle aree interne. In questo contesto, la transizione ecologica rischia di essere percepita come un’imposizione, non come un progetto condiviso.
Invertire la rotta richiede decisioni chiare. Serve una strategia energetica nazionale credibile, una politica industriale verde e investimenti seri in formazione e competenze. Anche il sindacato deve trasformarsi, passando dalla difesa dell’esistente alla costruzione del futuro. La transizione ecologica è una prova decisiva di governo e rappresentanza sociale: senza coraggio e responsabilità, il ritardo verde rischia di diventare un debito irreversibile verso le prossime generazioni.













































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