Da D'Orsi a Shahin, censura e antiqualcosa da "leggi speciali"
- Marcello Croce
- 12 ore fa
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di Marcello Croce

Se torno a riflettere sul clamoroso fallo a gamba tesa avvenuto a Torino il 12 novembre scorso, quando il Polo del '900 fece inaspettatamente retromarcia per la concessione della sala che doveva ospitare un convegno sulla Russia di Putin e sul clima russofobico (il convegno con Angelo D’Orsi è stato poi tenuto altrove), subito per associazione analogica mi saltano al naso le due (sgrammaticate) paginette del disegno di legge firmato Gasparri, presentato il 30 settembre scorso, dal titolo “Disposizioni per il contrasto all’antisemitismo e per l’adozione della definizione operativa di antisemitismo”, esplicitamente rivolte al mondo della scuola e dell’università, che tra l’altro programma l’adozione di una «Guida pratica di lotta contro l’antisemitismo», in cui siano accuratamente definiti gli elementi costitutivi dei reati o delle circostanze aggravanti per motivi di antisemitismo, incluso l’antisionismo. Stiamo dunque entrando in un clima di “leggi speciali”, e più in generale di un uso dell’arma legalitaria per interferire sulla legittimità dei giudizi politici di natura morale (come è avvenuto per il caso del citato convegno e non solo, se pensiamo alla vicenda di Mohamed Shahin, imam della moschea Omar Ibn Al Khattab di via Saluzzo, prelevato dalla forze dell'ordine e spedito nel giro di poche ore nel CPR di Caltanissetta.)

Dalla caduta del Muro di Berlino...
E, mentre si discute il cosiddetto piano di pace di Trump, oggi appare chiara soprattutto una cosa. Nonostante il 1989, sottolineo il 1989 (crollo del “muro” di Berlino), si persiste a volere che il continente europeo rimanga diviso da una “cortina di ferro”! E già. Proprio la memoria di Jalta – con l’immagine dei tre decisori incappottati e insediati per la fotografia storica – resiste tenace a dispetto del secolo consumato e del nuovo millennio velocemente avviato. Che sia divenuta una memoria immortale?
A quel tempo (il 1945) il continente europeo fu “spartito” sulla linea (più o meno concordata a Teheran due anni prima) di congiunzione degli eserciti alleati, dando luogo alla spaccatura del vecchio tessuto europeo, disfatto nel 1914. È essenziale ricordarci di questo, perché la “cortina di ferro” non fu solo un affare sovietico, ma fu una decisione trilaterale, concordata fra tre potenze alleate. La “cortina” disegnava un ordine internazionale che essi decisero insieme. Poi, come si sa, subito dopo cominciò la “guerra fredda” e a seguire la mondializzazione progressiva del processo storico. Il mondo in superficie restò diviso in due, con una “superpotenza” (l’americana) volta alla conquista di tutti i mercati e l’altra (la sovietica) sempre più volta a bloccare e difendere la propria fortezza superstatalista.
Ma sotto quella superficie, intanto, si muoveva silenzioso un mondo futuro, altro. Quello che dopo ottant’anni è emerso e oggi assiste, paziente, agli ultimi, pericolosi spasimi del vecchio mondo che si sta congedando dalla storia (la cortina di fumo dei “volenterosi”).
Perché questo deve essere chiaro. Le successive crisi di questo primo quarto di secolo XXI rappresentano e testimoniano la riluttante agonia dell’ordine mondiale, e in particolare europeo, uscito dalla tragedia iniziata nel 1914 .

I nostalgici dell'ordine di Jalta
Oggi Trump recita la parte di quel bambino della favola (di Andersen) che in mezzo alla folla, alla vista del Re esclama, facendo sobbalzare tutti quanti, che il Re è nudo! L’Europa di Maastricht venne costituita subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica e in piena euforia neo-liberista, in un sistema capitalista “atlantico” imperniato sul sistema della Nato. La parola d’ordine era: globalizzare, cioè la suprema esaltazione del capitalismo americano e del suo trionfo antistorico (1992: Fukuyma, La fine della storia).
Ma torniamo al punto di partenza. Ha ancora senso parlare di Europa come se il 1989 non ci fosse mai stato? E chi sono questi nostalgici dell’ordine di Jalta, gran parte dei quali (i “volonterosi”) per quattro decenni avevano deprecato la mutilazione dell’Europa “libera” causata dall’impero comunista? Nostalgici, cioè, come se la Russia non costituisse invece una parte essenziale dell’Europa, cioè una parte della lunga guerra civile europea (E.Nolte).
A questo proposito, la tradizione russa che conosciamo meglio – citiamo i casi esemplari di Herzen e Turgenev, di Tolstoj e Dostoevskij – ci appare in sé stessa divisa da due grandi anime vitali. Dal giorno in cui Zoé Paleologa, prendendo il nome di Sofìa, si unì in matrimonio con il principe di Mosca Ivan III, la Russia si avviò ad assumere l’eredità del defunto impero bizantino, o di una parte di essa. Non era dunque qualcosa di originariamente europeo? Anzi, tanto europeo da divenire il principale baluardo al contenimento delle invasioni turco-mongole provenienti dalle regioni asiatiche.
Ma poi, da quando lo zar Pietro fondò la città del Baltico che prese il suo nome, si aggiunse e parzialmente si contrappose a questo un altro volto che culminò (Dio mi perdoni per l’acrobazia!) nella pianificazione sovietica! Ma anche questo si rivelava, a maggior ragione, un parto di quella che consideriamo l’Europa.
Questo dualismo potrebbe spiegare anche la questione ucraina.

Le pagine di Michail Bulgakov
Ho riaperto dopo molti anni un romanzo quasi dimenticato. È La guardia bianca, che Michail Bulgakov scrisse nei lontani anni Venti del Novecento; mai sfuggito alla censura sovietica (uscì a Parigi nel 1929 e in Russia, con tagli, solo nel 1966). Questa nobile traduzione di Lo Gatto fu arditamente pubblicata da Giulio Einaudi nello stesso anno 1966.
Ero poco più che ragazzo, allora. Cos’ha di speciale oggi questo affascinante romanzo? Ha di straordinario che ci porge una chiave di lettura del conflitto russo-ucraino odierno quanto mai esplicita, almeno per farcene capire l’essenziale. Vi sono qui tre cose da notare.
Prima di tutto il carattere indistinguibile della storia ucraina da quella russa – almeno fino al 1914. Basta pensare che Bulgakov, come del resto Grossman, o Gogol, era di nascita ucraina (Kiev 15 maggio 1891) e di buona lingua russa. Il romanzo è ambientato nella sua Kiev. I protagonisti, i fratelli Turbin, sono ufficiali ucraini fedeli allo zar di Russia.
La seconda cosa riguarda il 1919, l’anno in cui si svolge la vicenda narrata dal romanzo. È l’anno che seguì alla resa dell’Impero zarista, e del conflitto fra ben tre eserciti in armi, quello rimasto fedele allo zar da poco giustiziato, quello nazionalista-ucraino che aveva un capo storico allora celebre, Pletjura, e quello dei bolscevichi dell’Armata rossa (che a vittoria ultimata ricompose l’Impero). Ciò vuol dire che la catastrofe militare di un Impero, nella guerra mondiale, produsse la sua decomposizione, determinando l’insorgenza del movimento comunista e una serie di insorgenze separatiste di natura etnica (tra cui quella ucraina).
Consequenzialmente (e terza cosa), l’indipendenza dell’Ucraina potrebbe non sembrare poi tanto diversa dal secessionismo dei lumbard predicato da Bossi qualche decennio fa (finché l’analogia ne permette il confronto, beninteso!). Osservo solo che la Rus’ di Kiev (IX secolo d.C.) era madre sia della Russia vera e propria, che della futura Ucraina.
Ma non andrebbe dimenticato che l’odierno conflitto è anche l’effetto di una strategia atlantica messa a punto quando una seconda decomposizione – quella del secondo Impero, quello sovietico – ne incoraggiò l’avanzata strategica verso est. Ricordiamo allora il giudizio di papa Francesco, quando espresse il seguente commento: «L’abbaiare della NATO alla porta della Russia ha indotto il capo del Cremlino a reagire male e a scatenare il conflitto. Un’ira che non so dire se sia stata provocata, ma facilitata forse sì» (Corriere della Sera del 3 maggio 2022).













































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