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Spese militari al 5% del PIL: "la situazione è grave, ma non seria”

di Gianni Alioti*  


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Chiamato ad analizzare, con un certo “distacco”, l’ultimo vertice della NATO a l’Aia e l’obiettivo magico del 5% del PIL per spese militari & dintorni, non posso che condividere il sarcasmo con il quale il professor Franco Cardini ha trattato magnificamente l’argomento, in un lungo articolo pubblicato nel suo blog con il titolo “L’Europa e il riarmo. Una situazione grave, ma non seria”[1], nel quale riutilizza il famoso aforisma con cui lo scrittore Ennio Flaiano, valutava ironicamente la politica italiana degli anni ’60.

Che non sia molto serio misurare, attraverso un indicatore finanziario come il rapporto tra spese militari e PIL, l’effettivo contributo alla sicurezza globale di un’alleanza militare e/o di un singolo paese, lo dimostra la classifica dei primi 15 paesi al mondo nel 2024 in base a questo criterio.

 

Tabella 1 – I primi 15 paesi al mondo nel 2024 per % di spese militari in rapporto al PIL

 


Spesa militare / PIL

Spesa militare in milioni di dollari Usa

Ucraina

34,5%

64.705,0 USD

Israele

8,8%

46.505,3 USD

Algeria

7,9%

21.811,2 USD

Arabia Saudita

7,3%

80.330,7 USD

Russia

7,1%

148.967,3 USD

Myanmar

6,8%

5.011,3 USD

Oman

5,6%

5.988,3 USD

Armenia

5,5%

1.418,0 USD

Azerbaijan

5,0%

3.777,1 USD

Giordania

4,9%

2.560,3 USD

Kuwait

4,8%

7.792,9 USD

Burkina Faso

4,7%

1.023,7 USD

Mali

4,2%

929,3 USD

Polonia

4,1%

38.000,7 USD

Burundi

3,8%

171,8 USD

Fonte: SIPRI

(la classificazione delle spese militari di questo istituto differisce leggermente da quella NATO)

 

 

Nei primi posti troviamo cinque paesi in guerra: Ucraina, Israele, Arabia Saudita, Russia e Myanmar. E solo Russia, Arabia Saudita, Ucraina, Israele e Polonia, tra questi 15 paesi, figurano anche tra i primi 15 al mondo per spesa militare in valore assoluto.

 

 Tabella 2 – I primi 15 paesi al mondo nel 2024 per spese militari in valore assoluto

 


Spesa militare in milioni di dollari Usa

Spesa militare / PIL

USA

997.309,0 USD

3,4%

Cina

313.658,3 USD

1,7%

Russia

148.967,3 USD

7,1%

Germania

88.458,5 USD

1,9%

India

86.126,0 USD

2,3%

Regno Unito

81.763,2 USD

2,3%

Arabia Saudita

80.330,7 USD

7,3%

Ucraina

64.705,0 USD

34,5%

Francia

64.675,0 USD

2,0%

Giappone

55.273,9 USD

1,4%

Corea del Sud

47.571,3 USD

2,6%

Israele

46.505,3 USD

8,8%

Polonia

38.000,7 USD

4,1%

Italia

37.964,6 USD

1,6%

Australia

33.819,6 USD

1,9%

Fonte: SIPRI

(la classificazione delle spese militari di questo istituto differisce leggermente da quella NATO)

 

Oltre che non misurare l’effettiva capacità di difesa e la prontezza operativa di uomini e mezzi (personale effettivo nelle forze armate, quantità e qualità di armamenti terrestri, navali, aerei), l’efficienza dei sistemi di comunicazione (terrestri e satellitari), lo stato della logistica e della mobilità militare ecc., questi dati dimostrano che il rapporto tra spesa militare e PIL, più che fotografare il livello di potenza del dispositivo militare di ciascuno, quantifica la percentuale della propria ricchezza spesa, per sostenere conflitti armati in corso o piani di riarmo in preparazione alla guerra. L’analisi storica lo dimostra. Ad esempio, tutte le volte che gli Stati Uniti hanno superato il 4% del loro PIL in spese militari, nel giro di poco tempo, hanno finito per entrare in una o più guerre.

Alla luce di queste considerazioni l’accordo raggiunto all’Aia sul 5% di spese militari in rapporto al PIL, non è solo una cifra astronomica che appare socialmente ed economicamente insostenibile per la maggior parte dei paesi europei che l’hanno sottoscritta, ma si basa su una prospettiva strategicamente folle: la preparazione di uno scontro militare diretto con la Russia. Non solo il vertice NATO non ha fatto alcuna seria analisi sul proprio fallimento nella gestione della guerra in Ucraina, ma considera i russi la principale minaccia alla sicurezza euro-atlantica. I servizi segreti tedeschi sono arrivati, persino, a ipotizzare il 2029 come l’anno in cui i russi invaderanno i paesi europei.

Inoltre, il Segretario generale NATO l’olandese Mark Rutte ha intensificato la sua retorica ostile nei confronti della Cina, definendo l’espansione militare di Pechino “senza precedenti” e una minaccia diretta per l’Occidente. In questo caso, evidentemente, l’indicatore finanziario spesa militare/PIL non è poi così importante visto che la Cina è solo all’1,7%. “Questa strategia rivela l’incapacità della NATO di comprendere le dinamiche geopolitiche contemporanee. L’idea che un’alleanza nata per la difesa del Nord Atlantico possa estendere il suo mandato fino al Pacifico appare come l’ultima fantasia di un’egemonia occidentale in declino. È il prevalere della NATO politica su quella militare che tanto ha nuociuto alla credibilità dell’Alleanza nel corso del tempo”.

A dirlo non è certo un “pacifista e antimilitarista”, ma Maurizio Boni, già capo di stato maggiore del NATO Rapid Reaction Corps Italy (NRDC-ITA), capo ufficio addestramento dello Stato Maggiore dell'Esercito e vice capo reparto operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze a Roma, in un lungo e interessante articolo pubblicato dalla rivista “Analisi Difesa”[2].

Il fatto che l’unica proposta messa in campo sia quella di raddoppiare o triplicare la spesa militare, come se questa di per sé possa cambiare gli equilibri strategici e funzionare come deterrenza, dimostra che a condurre la danza siano ormai i fabbricanti d’armi europei e statunitensi. “La retorica della “guerra di produzione” utilizzata da Rutte […] trasforma la NATO da alleanza militare in cartello industriale, dove la sicurezza diventa un pretesto per trasferimenti massicci di denaro pubblico verso il settore privato della difesa”[3].

A conferma di quanto questa affermazione sia vera basta analizzare l’andamento dei titoli in borsa delle principali multinazionali americane ed europee al mondo per fatturato militare (oltre la crescita del portafoglio ordini, dei ricavi e dei dividendi per gli azionisti), tra l'altro opportunamente ricordato proprio ieri, 10 luglio, su questo sito con un articolo di Andrea Ciattaglia.[4] Solo due esempi paradigmatici. A inizio gennaio del 2022, prima della invasione russa in Ucraina, il valore di un’azione dell’italiana Leonardo era di 7,5 euro, al 10 luglio 2025 ha raggiunto 47,5 euro. Un incremento record del 533%. Nello stesso periodo il valore azionario della tedesca Rheinmetall è passato da 90 euro a 1.843 euro. Un incremento iperbolico del 1.947%. Andamento destinato a gonfiarsi, ulteriormente, sulle ali del piano ReArm Europe e delle indicazioni NATO, in ossequio a Donald Trump.

 

 

*Attivista e ricercatore di The Weapon Watch e già responsabile ufficio internazionale Fim Cisl

 

Note

[3] Maurizio Boni, Il bluff del 5%: come la NATO all’Aia si è condannata all’irrilevanza, Analisi Difesa 26/06/2025 

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