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Sorpresa: c'è chi vuole il ritorno delle "vituperate" Province

di Mercedes Bresso

Un paio di giorni fa, leggiamo la notizia che quasi tutti i partiti stanno presentando delle leggi per ripristinare le Province, con l’elezione diretta del presidente e del Consiglio Provinciale (speriamo anche con un chiarimento sulle funzioni e sulle risorse conseguenti ). Ottima notizia che mi riporta all'indietro della mia personale storia politica e m'induce ad alcune riflessioni per non ricadere in errori costati ai cittadini soprattutto penalizzati nella qualità di vita.

Quando, nel 1995, fui eletta presidente della Provincia di Torino, con la prima tornata elettorale che applicava la nuova formula dell’elezione diretta del presidente di Comuni, Province e Regioni, confesso che, come la maggior parte degli abitanti delle città, sapevo abbastanza poco di queste istituzioni. Inventate dai Romani (la Provence francese ne porta ancora il nome) ma in realtà codificate da Napoleone, da lui istituite in Italia e poi mantenute da casa Savoia, queste istituzioni erano state dei semplici consiglieri del prefetto e, nell’Italia repubblicana, istituzioni dalle competenze modeste: tutti sapevano citare solo le strade provinciali (la vera ossatura delle comunicazioni territoriali di breve e media distanza) e gli ospedali psichiatrici. Avevano un consiglio provinciale eletto con una complessa modalità di collegi e un presidente eletto a sua volta dal Consiglio.


L'elezione diretta di sindaci e dei presidenti di provincia e regione

Con la riforma che, dal 93, aveva disposto l’elezione diretta dei capi delle amministrazioni, anche le funzioni delle province erano cambiate e ad esse era stata attribuita la rappresentanza generale del proprio territorio. Confesso che quella prima campagna elettorale fu molto difficile, perché la maggior parte gli elettori si mostrava molto stupita di dovere eleggere il presidente della provincia nominativamente e del tutto ignara di chi fossero i candidati e di quali ne fossero le funzioni. Se però si andava a parlare con gli elettori dei comuni piccoli e medi e di quelli rurali o montani (la provincia di Torino ne aveva 315, più di molte regioni) allora le cose cambiavano: tutti conoscevano i cantonieri provinciali e sentivano la presenza provinciale nel supporto ai comuni fragili.

Quando andammo al ballottaggio col candidato di Forza Italia fu ancora più difficile convincere gli elettori, soprattutto urbani, a tornare al voto per eleggere un signor (o signora) nessuno! Eppure da quel momento, grazie probabilmente alla nostra voglia di neo eletti di definire meglio il nostro ruolo, le Province iniziarono ad accumulare competenze e a fare apprezzare il proprio ruolo di supporto ai comuni e di gestione delle nuove competenze territoriali e urbanistiche. In quella di Torino ci distinguemmo per l’attenzione ai problemi di difesa idrogeologica (il PTO del Po mise in salvaguardia tutte le confluenze degli affluenti del fiume riducendo di molto i rischi di inondazioni) e iniziammo a predisporre il piano di tutta la viabilità, nel frattempo avevamo ricevuto dallo Stato e dalle Regioni, la gestione di tutte le strade statali, salvo pochissime). Riorganizzammo il nodo idraulico di Ivrea e facemmo altri interventi di difesa del suolo, creammo una rete di eco-musei, progettammo e poi in parte realizzammo la soluzione della maggior parte dei nodi viari che strozzavamo l’accesso alle nostre valli.


La riforma costituzionale del 2001

Durante la preparazione per le Olimpiadi riuscimmo a risolvere gli altri nodi come la Torino-Pinerolo, la variante di Porte, la circonvallazione di Avigliana e la deviazione verso Sestrière e il Monginevro, la circonvallazione di Venaria, Borgaro. Stava diventando evidente che, dove riuscivano a lavorare, le Province erano la giusta dimensione per affrontare tutti i complessi problemi legati alla protezione e gestione del territorio. Cosa tanto più importante in territori montani, dove la gestione idrogeologica è fondamentale, come dimostrano i drammi periodici nel nostro paese. Solo un’autorità di area vasta dotata dei poteri e delle risorse avrebbe potuto affrontare il tema della difesa del suolo in modo efficace. Occorreva insomma potenziare gli unici enti che in Italia, ad eccezione dei grandi comuni, avevano la capacità e le strutture per programmare e per realizzare tutti gli interventi territoriali, in modo efficiente e coerente.

Con la riforma costituzionale del 2001, frutto di un curioso innamoramento soprattutto da parte del centro-sinistra del federalismo su base regionale, si inverte addirittura l’ordine delle istituzioni: l’Italia è composta da Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato. E si inverte il principio delle competenze: si definiscono quelle esclusive dello Stato o Concorrenti con le Regioni : tutto il resto diventa sul piano legislativo competenza delle Regioni. Ai comuni viene attribuita la preminenza amministrativa, cioè hanno il diritto di fare tutto ciò che necessita al loro territorio e per cui sono in grado di operare, dopo di loro la competenza per ciò che non erano in grado di fare spettava alle Province.

Naturalmente una tale riforma non poteva che comportare il federalismo fiscale, cioè l’attribuzione a comuni, province e regioni di imposte proprie, e il varo da parte dello Stato dei decreti attuativi che definissero con precisione che cosa restava allo Stato e che trasferissero risorse, personale e competenze nelle materie concorrenti e in quelle attribuite invece alle Regioni. Naturalmente in base al principio del federalismo amministrativo, la competenza a fare sarebbe stata delle province in tutte le materie che i comuni non fossero in grado di gestire. Il che soprattutto nelle zone con comuni piccoli sarebbe stato frequente.

Anche questa parte non fu evidentemente realizzata ma il trasferimento delle strade statali e il riconoscimento di fatto del loro nuovo ruolo permise alle Province di aumentare le proprie attività, i propri budget e il proprio peso istituzionale.


Il De profundis renziano

A questo punto arriva Matteo Renzi al governo e decide di dichiarare guerra alle province. C’era una ragione? No, in verità, perché si trattava delle istituzioni meno mediatiche e fortemente operative. Era successo che l’elezione diretta dei vertici e l’aumento del numero dei membri delle giunte e dei loro stipendi aveva provocato una reazione contro tutte le istituzioni con richieste di taglio delle remunerazioni, degli eletti e delle istituzioni.

Di queste esigenze essenzialmente di tipo demagogico, fecero le spese le Province. Invece di proporre quello che tutti chiedevamo: ridurre il numero di regioni, province e comuni, per renderne la dimensione più appropriata alle funzioni e ridurne i costi di gestione, si decise di eliminare il livello intermedio, senza però ridisegnare il sistema. In attesa della riforma costituzionale la Legge Delrio (dal nome del proponente, il ministro per gli Affari regionali Graziano Delrio) modificò la legge istitutiva delle province e la legge elettorale facendo delle province un ente a elezione indiretta, da parte dei sindaci della provincia, uno dei quali veniva indicato come Presidente ma senza risorse, senza una vera Giunta e persino senza il rimborso spese per recarsi dal suo comune alla sede provinciale. In più nelle grandi città si istituirono le città metropolitane, con normative farlocche che di fatto umiliano i comuni mettendoli sotto il controllo del capoluogo. E che hanno le funzioni, massacrate, delle vecchie province.

Nel Torinese la situazione è diventata ridicola , perché la città metropolitana comprende tutte le vallate fino alla frontiera così che di fatto queste sono state abbandonate. Come potrebbe il sindaco di Torino preoccuparsi di Monginevro o della Valchiusella? Che peraltro non contribuiscono in nulla alla sua elezione? Uno splendido risultato! Tutto ciò è andato avanti malgrado il chiarissimo rigetto della riforma e senza che le rappresentanze delle istituzioni pretendessero il ripristino del dettato costituzionale. In Italia non si applicano le riforme approvate, ma per contro lo si fa per quelle rigettate dagli elettori!


Proposte in nome di una maggiore efficienza

Le attuali più di cento province sono troppe, perché l’istituzione funziona al di là di una dimensione minima di 500.000/600.000 abitanti con almeno una o più città medie al suo interno, poiché è di fatto un re-distributore di reddito e di servizi dalle città verso il territorio extra urbano, rurale e montano. Le stesse Province avevano fatto una proposta di riduzione a 60/70 Province in tutto, eliminando quelle troppo piccole e fragili. Per fare un esempio in Piemonte andrebbero riaccorpate le quattro del nord est ( NO, VC, VCO, BI) in una sola o in due, almeno. Asti potrebbe essere accorpata a Alessandria, Cuneo restare com’è. La città metropolitana dovrebbe essere riportata a elezione diretta del presidente e di un consiglio metropolitano e potrebbe avere competenze aggiuntive su alcune materie di area vasta. Si avrebbero così quattro o cinque istituzioni intermedie, capaci di intervenire in modo efficiente sulle questioni di area vasta, in particolare la tutela del suolo, la pianificazione territoriale, la gestione dei sistemi idrici e dei rifiuti, le strade e le infrastrutture non statali. A queste si potrebbero aggiungere la pianificazione degli interventi per la lotta e l’adattamento al cambiamento climatico e tutte le politiche operative di protezione dell’ambiente.

Accorpiamo Regioni e comuni

Lo stesso ragionamento di revisione delle dimensioni andrebbe fatto per le regioni, accorpando le più piccole, che spesso si sono divise per inconsistenti ragioni identitarie (pensiamo all’Abruzzo e Molise). In alternativa queste piccole regioni dovrebbero avere anche la funzione di provincia, accorpandole in una sola, come è il caso della Valle D’Aosta.

Resta il problema dei Comuni: sono sicuramente troppi, soprattutto al Nord e l’accorpamento almeno degli uffici ( tutti!) andrebbe fatto. Potrebbero restare il sindaco e un piccolo Consiglio se proprio ci sono problemi di identità o storici.

In montagna i comuni potrebbero essere unificati attraverso le Comunità Montane di valle, altre istituzioni ingiustamente finite sotto la scure mediatica.

In conclusione: stiamo secondo me assistendo a una forte spinta delle persone verso una residenza in zone più prossime alla natura e dove sia più gradevole far crescere i propri figli, ma questa tendenza va controllata con istituzioni territoriali più forti se non vogliamo assistere a una nuova aggressione alla Natura in nome della sua difesa. Prepariamoci e discutiamone, ma senza pregiudizi e senza idee preconcette come spesso accade nei momenti di riforme importanti.

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