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Siamo in continuo cambiamento, ma per andare dove?

di Chiara Laura Riccardo ed Emanuele Davide Ruffino


Ci sono eventi che inevitabilmente condizionano le vite di ognuno di noi, portandoci a modificare la scala dei valori e, in alcuni casi, la nostra visione del mondo. Prima del lockdown, eravamo proiettati verso un progressivo e inarrestabile processo di globalizzazione: il mondo si rimpiccioliva di giorno in giorno e ci sembrava che tutto si avvicinasse e potesse dialogare con noi, facendoci quasi dimenticare il piccolo microcosmo in cui vivevamo (i nostri vicini e i servizi sotto casa). Quel microcosmo che, con la pandemia, ha riacquistato un valore ormai da tempo dimenticato. Poi, di fronte ad eventi travolgenti come la pandemia da Covid-19 e la guerra in Ucraina, ci siamo accorti che certi mondi possono essere distanti, ma soprattutto incomprensibili. Le divisioni si fanno sempre più marcate e gli uni non comprendono più gli altri.


Lo scacchiere di riferimento

Cambia il contesto, cambiamo le persone e cambia il modo di ognuno di essere e stare nella società. Basti pensare alla diffidenza tra chi, oggi, continua ad indossare la mascherina per tutelare non solo se stesso, ma anche gli altri e chi invece osservando queste persone le considera “vittime” di ansie ormai inutili. E se ci chiedessero di partire per una guerra contro la Francia per “liberare” i nostri ex-connazionali della Corsica o della Savoia, probabilmente non ci capaciteremo di come oggi ci possa essere rivolta una simile proposta. Eppure, in altre parti del mondo, si combatte per ragioni simili. Qualche “circuito sociale”, la crisi pandemica ed il lockdown, devono aver modificato il contesto.

Il tenere sopiti i conflitti locali e pensare che il genere umano si avviasse verso un periodo di pace e prosperità era un sogno troppo bello per non essere condiviso: ma così non è stato. Ed ora dobbiamo fare i conti con le nuove fragilità e povertà: l’Occidente, con le sue democrazie litigiose e spesso inconcludenti nel portare avanti dei progetti, viene contestato apertamente dalle autocrazie che, anche da queste manifestazioni di spavalderia, traggono il loro potere.

Non siamo più il centro del mondo e i valori fondanti le nostre società sono messi in discussione, al punto che, molti soggetti, non reggono più la situazione: suicidi, sindromi depressive, forme di alienazione si diffondono almeno quanto il virus. Forse proprio il divario tra le aspettative ante pandemia e le condizioni di fragilità e di povertà che si stanno realizzando, ci obbliga a rivedere i nostri principi filosofici, interrogandoci su come affrontare un futuro che non dipende più da noi, ma da quello che succede in un mercato di animali in Cina (o in un laboratorio) e dalle mire espansionistiche dei novelli aspiranti imperatori.

Da attori, siamo passati al ruolo di comparse passive, accompagnati dalla sensazione di essere vittime imbelli. Ovviamente il primo imputato di questo malessere è la politica (quella che noi scegliamo e votiamo periodicamente), ma lo slogan “piove governo ladro”, con questa siccità deve essere rivisto. Individuare un nemico con cui prendersela è sempre stato un efficace rimedio in molte situazioni: ma adesso si ha la sensazione che il nostro nemico siamo noi stessi. E noi stessi siamo un nemico pericolosissimo da combattere.


Il management del nostro tempo

Sembra, in questi ultimi tempi, che uno dei nemici da combattere sia diventato il mondo del lavoro; un mondo che sta profondamente cambiando, in tutti i settori. A sostegno di questo, vi sono i dati che emergono dalla ricerca di Bain & Company “The Working Future” secondo i quali il 58% dei lavoratori a livello globale ritiene che la pandemia abbia rappresentato un punto di rottura, costringendo le persone a ripensare l’equilibrio tra lavoro e vita personale e dove il livello di soddisfazione professionale degli italiani è agli ultimi posti e i lavoratori under 35 risultano tra i più stressati al mondo.

Sembrano essere cambiate anche le priorità di lavoratori: pur essendo il compenso ancora sul podio delle priorità della maggior parte dei lavoratori, in Italia solo un lavoratore su cinque lo classifica come il fattore principale per la scelta di un lavoro. Protagonista delle scelte diventa oggi la flessibilità, ossia quella possibilità di garantirsi una buona qualità della vita. Perché oggi le persone non sono più disposte a pronunciare quelle frasi che fino a qualche anno fa era sulla bocca di tutti noi, dal “non ho tempo” al “ventiquattro ore non mi bastano per fare tutto”.

Insomma, i tempi di vita tornano ad essere la priorità delle persone. Le ricerche mostrano come, negli ultimi due anni, i lavoratori italiani stiano sempre più rientrando nell’archetipo dei “Worker Bees”, ossia coloro che trovano significato e autostima principalmente al di fuori del loro lavoro, considerando l’occupazione unicamente come un mezzo.

Il nuovo obiettivo delle persone è dunque tornare ad avere un sano controllo sulle proprie vite e sulle proprie decisioni. Questo, forse, in risposta a quell’interrogativo, rimasto sempre aperto, che il sociologo Zygmunt Bauman pose alle società, che recita: “Nel dare forma alla nostra vita, siamo la stecca da biliardo, il giocatore o la palla? Siamo noi a giocare, o è con noi che si gioca?”.


Sperimentazioni, lavoro e ricerca del benessere

Certamente la crisi emergenziale che stiamo affrontando ci ha tolto molto, ma ci ha ridato il tempo di riflettere, ascoltare e ancor di più sentire; ci ha fatto comprendere come sia necessario allontanarci dall’iperattività e orientare le energie anche verso le nostre passioni ed attitudini. E per perseguire tali, riscoperti, valori, alcuni Stati iniziano già a porre in essere interessanti riforme e sperimentazioni. Tra questi si guarda con interesse al Regno Unito che, in questi mesi, è protagonista di una delle più grandi sperimentazioni al mondo in tema di “lavoro a misura d’uomo”.

Viene infatti applicata la nuova regola secondo cui una settimana lavorativa debba essere di soli quattro giorni e, i dipendenti delle oltre 70 aziende del Regno Unito, ricevono il 100% delle loro buste paga in cambio di solo l’80% del loro orario di lavoro abituale. Un esperimento, questo, costantemente monitorato dai ricercatori dell’Università di Oxford, dell’Università di Cambridge e del Boston College in termini soprattutto sociologici e psicologici. È infatti riconosciuto, da sempre in letteratura, che una settimana lavorativa di quattro giorni, aiuta sia i dipendenti in termini di benessere, che le aziende in termini produttivi. L’esperimento è stato già condotto in Islanda, con ottimi risultati, e ora tocca al Regno Unito con a seguire Irlanda, Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda.

Liberare i tempi di vita, incrementare il benessere delle persone in ottica salutogenica, sancire il diritto alla “disconnessione” dal lavoro e la giusta demarcazione tra vita privata e impiego divengono dunque, oggi, gli obiettivi principali per molte persone.

Tutto questo si rende oggi necessario anche a fronte delle elevate percentuali di dimissioni dai posti di lavoro registrate negli ultimi due anni in Italia: le persone hanno infatti lasciato i loro contratti a tempo indeterminato, in favore di gratificazione personale, serenità, ritmi meno pressanti, in altre parole, tempo per vivere. Ogni epoca ha le sue criticità mascherate e, oggi le nostre sono la velocità e l’eccessiva prestazionalità, che se non governate, rischiano, come sostiene il filosofo tedesco Byung-Chul Han, di portare “all’infarto dell’anima”, un’anima che diviene poi vittima di una stanchezza solitaria, che agisce separando e isolando.

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