Sarà l'Iran a cambiare Israele? Riflessioni di un giornalista
- Vice
- 1 giorno fa
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di Vice

Anche se Israele "vince" questo round contro il programma nucleare iraniano, cosa abbiamo esattamente vinto se rimaniamo nella morsa di un regime corrotto e apocalittico? [1] A scriverlo è Ethan Nechin, corrispondente di quotidiano israeliano Haaretz da New York. La sua è una prosa che rapisce, diretta e immediata anche nella vena d'inquietudine che prelude alla speranza (o al sogno?) di liberarsi di Netanyahu per non vivere sempre con la spada. Quindi di vivere in pace con sé stessi e con il mondo. Un mondo che oggi non comprende più Israele, che rifiuta la tendenza all'omicidio su scala industriale del suo capo. Un mondo che ha nella storia del passato l'unico e ancora robusto scudo per non farsi travolgere della totale indignazione.
Reazioni alle quali Nechin non reagisce chiudendosi a riccio, né ha il timore di misurarsi con esse, al punto che il suo testo è come se fosse una sorta di articolo palindromo, cioè lo si può leggere prendendo l'ultimo capoverso a andando verso l'alto, senza che nulla muti, né le emozioni, né tantomeno il messaggio finale che al fondo, come in cima rimane il desiderio specchiato di un ebreo di ritrovare la propria identità, anche a costo di rovesciare l'insieme delle sicurezze che la spada, appunto, assicura a Israele.
L'articolo si chiude:
Se questa è una vittoria, perché sembra un collasso?
Al paragrafo sopra: Potremmo essere di nuovo salvati da una cupola di ferro. Ma non da un dio del cielo. Se qualcosa sta per finirci, non cadrà come fuoco dall'alto. Marcirà dal basso: dai cunicoli dove siedono gli ostaggi, dalle radici bruciate degli ulivi, dal silenzio con cui abbiamo imparato a convivere.
Che cosa sta accadendo alla gente di Israele? Risponde più sopra Nechin: I giorni passano. Da una protesta all'altra, da un ostaggio all'altro, un altro soldato ucciso, altri quattro, iniziano e finiscono i colloqui per il cessate il fuoco, le delegazioni che arrivano e partono da Doha, i missili sparati da e verso lo Yemen, e nulla cambia.
Qual è allora la soluzione, sempre che esista, forse conservando l'identità dei padri e rispettando la natura democratica dello Stato? Ma qual è poi questa identità costruita tra attentati a britannici e arabi negli anni Quaranta, guerre ripetute, rigorosamente difensive, tra gli anni Sessanta e Settanta, ed occupazioni e sanguinose vendette, ed oggi, attacchi dal cielo al nemico iraniano che ha il sembiante di Ali Khamenei, ayatollah da eliminare per chiudere il cerchio, come vuole Netanyahu?
Ethan Nechin non ha dubbi: Non ci sarà vittoria senza una resa dei conti. Credere in un deus ex machina, nei miracoli che cadono su Teheran dal cielo, invece che in un cambiamento politico significativo, dal rifiuto di servire in questa guerra all'affrontare la corruzione fino ad affrontare finalmente il grande elefante dell'occupazione che è diventato la stanza, non fa che alimentare il ciclo solipsistico. Israele è sempre più isolato sulla scena globale.
E lo fa con disarmante freddezza, fino ad affondare il coltello nella ferita, indifferente allo zampillio del sangue, osservarlo senza un lamento, come se non fosse anche il suo:
Se, come il governo di Netanyahu ci propone, gli Accordi di Abramo sono una panacea, perché continuiamo a legare i nostri figli e a sacrificarli? Se facciamo la pace con tutti i paesi lontani – dall'Arabia Saudita all'Indonesia, ma non con i nostri vicini – è pace? La risposta la conosciamo già: l'abbiamo scoperto il 7 ottobre.
Ma oggi, un'altra "vittoria" si è trasformata in un'altra lunga notte, una notte che sembra non finire mai, una notte con cui fare i conti. Anche se Israele "vince" questo round contro l'Iran, cosa abbiamo esattamente guadagnato se rimaniamo nella morsa di un regime corrotto e apocalittico?
Nechin non sembra voler rispondere direttamente e un paio di capoversi sopra si rifugia per pudore nel racconto di una cena con vecchi amici e del dialogo con uno di essi:
[...] ho discusso con qualcuno profondamente sconvolto dalla guerra, dall'occupazione, dal futuro – e allo stesso tempo ha detto che non avrebbe votato, perché tutti i politici sono corrotti. Alla fine, ha detto che sarebbe rimasto in Israele. "Questa è casa. È tutto quello che so". Ho guardato mio figlio e gli ho detto: quello stesso senso di appartenenza è il motivo per cui ce ne siamo andati.
Più su, argomenta: Ciò che rimane è uno stato d'animo nazionale maniaco-depressivo: dai tunnel dove siedono gli ostaggi, alle chiacchiere euforiche dopo un attacco riuscito. Questo è ciò che è diventata l'identità israeliana. Israele non crede più di poter aggiustare nemmeno sé stesso. Non possiamo più volerlo e renderlo un sogno. Le nostre istituzioni sono crollate molto prima di qualsiasi edificio residenziale a Teheran. Le nostre fondamenta sono state scavate.
Che cosa è allora oggi Israele? Nechin non risponde, consapevole che con un Paese, il suo, a un passo dalla dittatura, che se non è propriamente politica, si avvicina di molto al disturbo psichico, non rimane che un'altra angosciante domanda.
Dal 7 ottobre, la società israeliana è diventata dipendente dalla salvezza dall'esterno. Una fantasia di ritorno: Trump riporterà indietro gli ostaggi. L'Iran crollerà. I palestinesi di Gaza scompariranno in Somaliland o in Finlandia. Qualcosa accadrà. Qualsiasi cosa, tranne noi. Tranne guardarsi dentro.
Ma anche se l'attacco cambierà l'Iran per sempre, cambierà noi, israeliani?
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