Referendum: cause e ragioni di una sconfitta (semi) annunciata
- Ferruccio Marengo
- 18 giu
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Aggiornamento: 18 giu
di Ferruccio Marengo

Chi, come me, l’8 e 9 giugno è andato a votare sì ai cinque referendum su lavoro e cittadinanza, non può che interpretare l’esito del voto come una sconfitta. Per attutirne l’impatto è possibile trovare riparo in un buon numero di ragioni: che i sondaggi erano fin dall’inizio sfavorevoli; che i partiti di governo hanno sostenuto apertamente l’astensione; che negli ultimi 25 anni nessun referendum, tranne quelli sul nucleare e l’acqua pubblica del 2011, ha raggiunto il quorum; che, in fondo, i sì ottenuti dai quattro quesiti sul lavoro sono stati superiori alla somma dei voti raccolti alle Europee dello scorso anno dai partiti che li sostenevano (Pd, M5S, Avs) e così via. Ciò nonostante, rimane il fatto che i votanti sono stati poco più di 14 milioni (il 30,6 per cento degli elettori) e che i sì ai referendum sul lavoro sono stati tra i 12 e i 12,2 milioni (tra il 26,1 e il 26,6 per cento del corpo elettorale).
Mentre si deve riconoscere alla Cgil, promotrice di quattro dei cinque referendum, il merito di aver restituito visibilità ai temi del lavoro, da tempo trascurati, occorre nello stesso tempo domandarsi perché ciò non sia stato sufficiente per spingere gli italiani ad andare alle urne. Nel nostro Paese circa l’80 per cento degli occupati è costituito da lavoratori dipendenti (18,5 milioni), di questi più di 7 milioni sono impiegati in lavori precari e 4,2 milioni ricevono un salario inferiore a 10.000 annui. Nel 2024 i morti sul lavoro sono stati 1.090 (49 più del 2023) e gli infortuni denunciati quasi 590mila. Perché tutto ciò non è stato sufficiente ad assicurare una forte partecipazione al voto su referendum che proponevano miglioramenti in tema di precarietà e sicurezza?
Disaffezione o sfiducia?
Molti commentatori rispondono a questo interrogativo puntando il dito su un generico sentimento di ‘disaffezione’ degli elettori: la scelta di non votare – suggerisce l’uso del termine ‘disaffezione’ - discenderebbe da un atteggiamento individuale di disinteresse e avrebbe la sua radice in fattori ‘impolitici’ riconducibili agli orientamenti e alla psicologia dei singoli. Detto in termini più semplici: se gli elettori non vanno a votare, la colpa è soltanto loro.
In realtà, quella di astenersi è una scelta politica, che genera effetti politici, indipendentemente della consapevolezza che di ciò hanno coloro che la compiono. È allora necessario comprendere le ragioni politiche che la motivano. Un passo in avanti in questa direzione si può fare quando si sostituisca alla ‘disaffezione’ la ‘sfiducia’: sfiducia nelle istituzioni, nelle forze politiche, nelle strutture di rappresentanza, nelle procedure democratiche. In sintesi, sfiducia nella possibilità di far sentire la propria voce e influenzare, con essa, le scelte fatte da chi governa.
Se in senso lato si può dire che questo senso di sfiducia è il risultato di un clima culturale di esaltazione della libertà del singolo, assunta come fattore assoluto e ultimo di valore, in continuo conflitto con le limitazioni che l’azione collettiva impone – è cioè il risultato di un ‘liberi tutti’ che nega la dimensione politica del vivere e riduce le relazioni sociali ai soli rapporti di forza regolati dal mercato – occorre tuttavia cercare di comprendere quali siano stati i fatti e le scelte che hanno consentito a questo clima di affermarsi.
Tra i tanti possibili ne indico due.
L’assenza degli spazi pubblici della politica
Il primo è dato dalla forte contrazione degli spazi pubblici dedicati all’incontro, alla conoscenza, alla discussione e all’elaborazione di strategie e modalità condivise, finalizzate a migliorare la qualità della vita individuale e collettiva. Tra gli spazi più colpiti ci sono i partiti politici, che nel primo quarantennio della Repubblica, bene o male, erano stati capaci di assolvere il compito loro assegnato dalla Costituzione, ovvero quello di associare liberamente i cittadini dando ad essi la possibilità di ‘concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale’ (art. 49). Se non ci possono essere dubbi che all’inizio degli anni ’90 i partiti avevano accumulato molti peccati da farsi perdonare, è del pari vero che la cura utilizzata per estirparli è stata peggiore del male: per debellare i morbi che li avevano colpiti si è deciso di uccidere i pazienti.
Con la scomparsa dei grandi partiti di massa sono nate nuove forme di organizzazione politica (il partito del leader, il partito marketing, il partito comitato elettorale e così via) che hanno contratto, anziché ampliare, gli spazi di partecipazione effettiva dei cittadini, riservando ad essi, non un maggiore peso nella determinazione delle scelte, ma il semplice ruolo di ‘tifosi’. La contrazione degli spazi di partecipazione ha dato origine a ‘patologie sociali’ che si manifestano con la chiusura nel privato (già avvertita ad inizio degli anni Ottanta) e il declino della fiducia verso l’altro e le istituzioni.
Il peso negativo della "terza via"
Il secondo cambiamento che ha favorito la formazione del nuovo quadro culturale e politico va ricercato nelle politiche adottate dai partiti della sinistra occidentale a seguito della vittoria della cosiddetta ‘terza via’, sostenuta, nell’ultimo decennio del Novecento, da Bill Clinton e Tony Blair (poi seguiti, in Italia, da Matteo Renzi). Si devono ascrivere a questi leader le più incisive misure di liberalizzazione, su base mondiale, dell’economia e della finanza, accompagnate da provvedimenti altrettanto incisivi di liberalizzazione (e precarizzazione) del mercato del lavoro. Tutte misure trovavano un fondamento teorico nella cosiddetta ‘legge dello sgocciolamento’, secondo la quale una politica economica favorevole agli strati ‘alti’ della popolazione, condotta attraverso sovvenzioni e sgravi fiscali, avrebbe finito per premiare anche le fasce più disagiate: in altre parole, se i ricchi fossero diventati più ricchi, qualche briciola sarebbe caduta, ‘per sgocciolamento’, anche sulle tavole dei poveri. A trent’anni di distanza possiamo affermare che questa legge ha funzionato soltanto a metà: i ricchi sono diventati più ricchi (spesso molto più ricchi), mentre i poveri sono diventati più poveri (e non soltanto in termini relativi). Ciò spiega in gran parte perché le politiche della ‘terza via’ hanno provocato una frattura profonda tra i partiti della sinistra che le hanno perseguite e i ‘popoli’ che in essi tradizionalmente si riconoscevano.
Lo sfaldamento del sistema di rappresentanza
Si è così avviata una fase di sfaldamento del sistema di rappresentanza che ha lasciato ‘scoperte’ intere aree di interessi ed emarginato politicamente ampi strati di popolazione, in particolare della parte più debole di essa. In questo contesto sono cresciuti fenomeni di sfiducia radicale verso le forze politiche (in particolare verso quelle di sinistra, che avevano storicamente assolto una funzione di rappresentanza degli ultimi), che si sono manifestati attraverso l’astensione, che non casualmente, dopo un primo picco nelle elezioni politiche del 1996, è costantemente cresciuta a partire da quelle del 2008. Nello stesso tempo, il senso di sfiducia ha alimentato un fenomeno di ‘nomadismo elettorale’ che si è espresso attraverso la ricerca continua e, per così dire, indiscriminata di una sempre nuova rappresentanza politica, vistosamente premiata in questa o quella tornata elettorale e rapidamente abbandonata nella tornata successiva: sono paradigmatiche, a questo proposito, le vicende elettorali del Pd renziano, del M5S di Grillo e della Lega di Salvini, mentre si attende di capire se la stessa sorte toccherà anche a FdI.
Ritorno... alla partecipazione
È possibile contrastare questa tendenza, ricostituire forme stabili di rappresentanza e ridurre la tendenza all’astensione che colpisce aree sempre più vaste di elettorato?
Rispondere a questo interrogativo non è facile.
In ogni caso, affinché ciò possa avvenire, sono necessari cambiamenti non marginali delle proposte politiche e dei modi di operare dei partiti della sinistra (e, tra questi, in primo luogo, del Pd, che continua a appresentare il nucleo più importante dell’area riformatrice).
Occorre, in primo luogo, che queste forze ricollochino con forza al centro della loro azione politica la ‘questione sociale’, elaborando e attuando strategie efficaci di tutela dei diritti sociali, a partire da quelli riguardanti le condizioni economiche e di lavoro degli strati meno privilegiati della popolazione, anche se ciò rappresenta una scelta in controtendenza rispetto al clima culturale dominante.
Occorre inoltre che queste stesse forze modifichino le strutture organizzative e i meccanismi decisionali in atto, che abbandonino il modello di partito attualmente prevalente (tarato sull’immagine del partito come comitato elettorale) e tornino ad essere un luogo aperto, diffuso e capillare d’incontro e discussione, una sede di costruzione degli scenari sociali e politici verso i quali indirizzare l’impegno collettivo, un luogo di produzione di cultura politica.
Non so se, nonostante la buona volontà dei singoli, questi cambiamenti potranno avvenire.
So però per certo che, in ogni caso, l’esperienza appena vissuta della sconfitta ai referendum non si ripeterà. Nel primo caso – nel caso in cui i cambiamenti che mi auguro si realizzino – perché non sarà più necessario ricorrere allo strumento referendario per affermare alcuni basilari diritti dei lavoratori; nel secondo caso perché sarà del tutto inutile farlo.
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