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Referendum, Cgil e sinistra alla prova dell'autocritica


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La sconfitta è netta. E non la si può negare da parte dei promotori dei cinque referendum, dalla Cgil ai partiti politici che li hanno sostenuti nella raccolta delle firme. Quel trenta e rotti per cento, pari ad oltre tredici milioni di schede ritirate e 12 milioni di sì, tanti comunque, è comunque distante dal quorum richiesto per validare la consultazione referendaria. Ad un tempo, offre alla destra e ai suoi giornali, e al governo Meloni, solide sponde da cui cantare vittoria e sminuzzare, se non ironizzare, le ipotesi di una crisi politica dietro l'angolo. Oggi, 9 giugno, non c'è resa dei conti, né ci sarà in un prossimo futuro. Giorgia Meloni da questo punto di vista potrà anche gioire e dormire sonni tranquilli. Ma fino a quando?

Infatti, sbaglierebbe a credere che il Paese che ha disertato le urne non la osservi. Lo farà, attento a giudicare i comportamenti di chi alla vigilia ha invitato a non andare a votare, dando però l'impressione di giocare più sull'astensionismo patologico che non sulla reale capacità di risolvere i problemi, che non siano quelli "brillantemente" risolti con la propaganda, in cui il Governo è maestro. Come sul tema del lavoro che ha saputo trasformare in un boomerang per i referendum, puntando il dito accusatorio sulla scelta di tempo sbagliata e intempestiva con i dati che indicano un record per l'occupazione. Commento "povero" che riflette la "povertà" dei posti di lavoro per salario, durata dei contratti e qualità, come dimostrano le stesse analisi non dozzinali sul mercato del lavoro. Una tendenza al ribasso confermata dai giovani in cerca d'occupazione che optano per l'estero attratti da paghe robuste e da prospettive di carriera realistiche.

Da oggi, il Paese guarderà anche agli sconfitti e alla loro capacità di autocritica e di riflessione per cercare di capire perché non sono stati in grado di mobilitare gli interessi di quanti avevano tutto l'interesse a votare e a sposare i sì referendari, soprattutto sul lavoro. Il che non è un fatto propriamente residuale, a meno di non considerare l'organizzazione degli interessi un fattore residuale, nonostante essa imponga tra le sue finalità quella di costruire relazioni, e non soltanto sui luoghi di lavoro.

Qui il ragionamento porta direttamente a domandarsi che cosa vale quel 30 per cento che ha scelto di aderire all'invito dei proponenti referendari rispetto al tipo di organizzazione che i partiti orientati a sinistra e la stessa Cgil sono in grado di mettere in campo per rispondere alle esigenze dei lavoratori e, soprattutto, di chi è in cerca di occupazione. In altri termini, si ritorna al dualismo della rappresentanza - garantiti e non garantiti - su cui si attorcigliano da decenni i sindacati e non solo la Cgil e che non ha visto alcun modello sindacale finora vincente, tantomeno quello di base che si propone come più combattivo, meno disponibile al compromesso rispetto ai Confederali. Al che sorge spontanea un'altra domanda, cioè se sia possibile nell'attuale sistema economico un modello sindacale vincente o se non possa che esistere un modello sindacale subalterno e di conseguenza sempre sconfitto. Del resto, i referendum hanno chiesto un'inversione a U di una legge, il Jobs Act, presentata dal Pd e votata dal centro sinistra, contrastata per via politica dalla Cgil, ma che non sa quanto sia stata appoggiata dagli stessi che vuole tutelare, se si guarda alle percentuali del Mezzogiorno, dove maggiore è la forza lavoro non organizzata.

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