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Quarant'anni fa l'attacco della Thatcher alla "working class"

di Stefano Marengo


Quarant’anni fa, il 12 marzo del 1984, aveva ufficialmente inizio lo sciopero dei minatori britannici contro il governo di Margaret Thatcher. Si trattò della più importante azione sindacale del XX secolo nel Regno Unito - uno sciopero che, per quanto destinato alla sconfitta, assunse quasi dei tratti epici sia per la sua durata (51 settimane) sia per la mobilitazione che riuscì a creare in vasti strati della società britannica.

La causa prossima della contestazione fu il progetto di Downing Street di chiudere una ventina di pozzi carboniferi, con il conseguente licenziamento di circa 20mila lavoratori. Fin dall’inizio fu chiaro, tuttavia, che la posta in gioco era ben più elevata. Aggredendo il settore minerario, infatti, la Thatcher perseguiva due obiettivi strategici dell’agenda neoliberista che proprio in quegli anni si stava imponendo su entrambe le sponde dell’Atlantico. Il primo obiettivo era l’attacco frontale ai sindacati che, dal secondo dopoguerra, avevano giocato un ruolo centrale tanto come corpi intermedi di organizzazione e rappresentanza della classe operaia quanto come garanti della coesione sociale. L’indebolimento delle Unions, in secondo luogo, era per Thatcher il passo preliminare per una complessiva ristrutturazione dell’economia britannica nel senso di una sempre più marcata deindustrializzazione e finanziarizzazione.

Lo sciopero dei minatori del 1984-’85 fu l’ultimo argine di una certa consistenza che la classe lavoratrice - la working class - provò a porre alle politiche economiche fortemente sperequative perseguite dai conservatori. La sua sconfitta, di conseguenza, segnò il dilagare del neoliberismo come ideologia di riferimento non solo in Gran Bretagna ma, a stretto giro, anche nel resto d’Europa. In altre parole, con il fallimento dello sciopero giunse a termine anche la gestazione del mondo che ancora oggi conosciamo e di un modello di sviluppo caratterizzato dal sempre più accentuato venir meno dell’azione pubblica a vantaggio degli attori privati, un modello di sviluppo, cioè, fondato sulla terziarizzazione e la privatizzazione dell’economia, sull’erosione del welfare, sulla crescita delle disuguaglianze e della precarietà del lavoro, sull’indebolimento sistematico dei corpi intermedi (sindacati, partiti, associazioni) e, sotto il profilo culturale, sull’affermazione di un individualismo anarcoide e dell’edonismo iperconsumistico.

A questo proposito, lo sciopero dei minatori e le modalità con le quali fu affrontato dal governo Thatcher rivelano anche una caratteristica che sarebbe giunta a piena maturazione nei decenni successivi, ossia il ricorso sempre più sistematico, da parte del potere politico, al paradigma poliziesco-securitario. Le 51 settimane di mobilitazione dei minatori britannici furono infatti scandite non solo da innumerevoli violenze da parte delle forze dell’ordine, che operarono oltre 11mila arresti spesso del tutto arbitrari, ma, a monte, da una narrazione conservatrice volta a dipingere i lavoratori in sciopero come irragionevoli e facinorosi e, in quanto tali, da estromettere dalla dialettica del confronto politico. In altre parole, con la Thatcher si afferma un modello di governo inteso alla delegittimazione e alla repressione del dissenso anziché alla sua comprensione in sintesi politiche di più ampio respiro. Questo è probabilmente uno dei retaggi più persistenti e velenosi che abbiamo ereditato da quella stagione.

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