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"Non sia inutile la morte di Donatella dietro le sbarre"


di Guido Tallone


Il responsabile del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Carlo Renoldi, ha annunciato che i vertici della struttura visiteranno anche nel giorno di Ferragosto gli istituti di pena italiani. Una decisione presa anche sull’onda emotiva dei suicidi a catena (quattro) avvenuti negli ultimi giorni nei nostri penitenziari e per dare una risposta a una situazione diventata insostenibile e disumana. L’impatto maggiore si è registrato con il suicidio nel carcere di Verona della ventisettenne Donatella Hodo, tossicodipendente, una storia amara di fragilità e sconfitte personali, e la reazione del giudice di sorveglianza Vincenzo Semeraro che, rotto il conformismo, ha scritto una toccante lettera di denuncia sui limiti del sistema carcerario. E al funerale della giovane, le parole del magistrato scuotono l’opinione pubblica: "Scusami Donatella, con la tua morte ho fallito anche io".


Che il degente muoia in ospedale, è evento che può accadere. Nonostante l’impegno (ordinario e straordinario) di molti ottimi operatori sanitari. È la conferma del fatto che male fisico e malattie varie sono spesso in grado di tenere sotto scacco la salute del paziente e, in alcuni casi, anche di cagionare la morte.


Dall'inizio dell'anno 50 suicidi nelle carceri italiane

Che il detenuto si tolga la vita in carcere è – invece – un qualcosa che non può e non deve accadere. “Non può accadere” perché carcere e detenzione sono stati pensati come momenti di transito per aiutare chi ha sbagliato strada a ritrovare la via della legalità. E non a caso la nostra Costituzione dichiara, all’articolo 27 che: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Ma “non deve accadere” perché è inammissibile che il carcere si presenti come esperienza di buio così intensa da spingere il detenuto a pensare che solo il suicidio lo possa avvicinare a frammenti di luce in grado di diradare la disperazione che ha in corpo.

E se la detenuta o il detenuto si toglie la vita in carcere – come è accaduto già 50 volte nelle carceri italiane dall'inizio dell'anno e 54 volte nel 2021 – è il segno eloquente che lo strumento carcere ha fallito la sua missione. Non solo: il fatto che la morte di Donatella – morta di carcere a 27 anni ai primi di agosto nella struttura detentiva di Verona – non abbia spostato di un millimetro il fiume di parole di questa calda e noiosa campagna elettorale, è la conferma del fatto che la veraforza del carcere è data dall’indifferenza che avvolge questa struttura e che induce chi è “oltre il muro” a girare il volto dall’altra e a non coinvolgersi per ciò che accade al suo interno.


La necessità di misure alternative alla prigione

Ha ragione Vincenzo Semeraro, il magistrato di sorveglianza che aveva in carico Donatella, quando dice che questo ennesimo suicidio in carcere denuncia l’incapacità dell’intero sistema penale di costruire quella rieducazione prescritta dalla nostra Costituzione. Donatella chiedeva aiuto. Voleva cambiare. Cercava una pena adeguata ai suoi errori e in grado di portarla fuori non solo dal carcere, ma anche da comportamenti e consumi nocivi per la sua salute e per il suo futuro. Il suo fidanzato voleva farsi carico del suo percorso di “liberazione” e aveva affittato un alloggio. Per starle vicino. Donatella aveva bisogno di una misura alternativa alla detenzione. Che purtroppo non è arrivata.

Ma solleviamoci oltre la cronaca. “Il carcere” è sostantivo che regge il singolare. Ed è quel singolare che genera confusione e che diseduca il pensiero sociale e politico sulle pene chiamate a ricostruire giustizia e rieducazione. Il carcere – al singolare – rimanda a “pena certa”. Espressione coniata da quanti volevano opporsi a un carcere declinato al plurale e capace di costruire alternative alla detenzione, ma entrata poi nel lessico popolare fino a diventare schema mentale ordinario anche per uomini di cultura (docenti, operatori dell’informazione, amministratori politici, etc.).


"Pena certa? No, pene giuste"

Il carcere – secondo questo schema per l’opinione pubblica – deve essere la cosiddetta “pena certa”. Senza se e senza ma. Non si parli, perciò, di sconti pena, di permessi per i detenuti o di misure alternative alla detenzione. Il buon senso popolare su questo punto è rigido: la pena deve essere “certa”. E visto che non si può teorizzare lo slogan del “buttare via la chiave” perché così dicendo la pena diverrebbe “vendetta”, con l’espressione “pena certa” avanza l’augurio che chi ha commesso l’illegalità si tolga dai piedi, non si faccia più vedere e resti il più possibile “oltre il muro”. E se il detenuto sta male? Peggio per lui: aveva solo da pensarci prima. Questo il ragionamento di chi usa l’espressione “pena certa”.

Più in profondità – però – le “pene” inflitte a chi ha commesso dei reati devono essere “giuste”, perché si presentino come civili e perché diventino efficaci.

“Giuste” nel senso che devono diventare capaci di aiutare chi le riceve a cambiare condotta e a non nuocere più: a se stesso e agli altri. “Pene giuste” significa percorsi pensati per aiutare il “condannato” ad assumersi le sue responsabilità, ma solo quelle. Senza addossare sulle spalle di chi ha sbagliato anche tutte le responsabilità di un sistema sociale che prima abbandona i più fragili e poi chiude dietro le sbarre chi, con la sola presenza, denuncia anche le responsabilità e le negligenze di un sistema sociale ammalato almeno quanto chi ha sbagliato, se non di più.


Modificare l'approccio mentale

Se la morte di Donatella ci aiuterà a cambiare vocabolario e a non pronunciare più l’espressione “pena certa”, è il segno che il sacrificio della sua vita non è stato inutile. Ci ha obbligato ad aprire gli occhi e a cambiare schema mentale. E – di conseguenza – ci ha educato ad aprire anche le orecchie e a sussultare, a protestare e a rifiutare quanti, nei loro fumosi discorsi, mascherano il desiderio di logiche vendicative con la sterile operazione di pulizia linguistica che identifica il carcere con la “pena certa”. Passare dal singolare “pena certa” al plurale “pene giuste” è il vero percorso di conversione – linguistica, culturale, mentale, sociale e politica – che il sacrificio di Donatella e di quanti come lei si ritrovano al buio nelle nostre prigioni, ci chiedono.

Non è poco eliminare dalla nostra testa l’espressione “pena certa” associata al carcere e rileggere i percorsi detentivi come “pene giuste” finalizzate a ricostruire speranza e giustizia tanto per le vittime quanto per i colpevoli. Anche perché il solo modo per costruire speranza per tutti e per ciascuno è quello del cambiare linguaggio. Per dotarci di “parole” vere, coerenti e credibili perché intrise di giustizia. Spiace constatarlo, ma sono proprio le parole che mancano da questa stanca campagna elettorale.



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