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Nazione e nazionalismo al servizio dell'autoritarismo meloniano

di Ferruccio Marengo


Con l’insediamento del governo diretto da Giorgia Meloni s’è assistito a un cambiamento del linguaggio politico. Alcune parole sono state relegate in secondo piano e pronunciate con una certa fatica – è il caso di ‘antifascismo’ – altre sono state riportate agli onori della cronaca. Tra queste c’è il termine ‘nazione’, frequentemente utilizzato dalla Presidente del consiglio.


Dalle "pulsioni" di Polonia e Ungheria a Vox

Si tratta di un’espressione tutt’altro che ‘neutra’ dal punto di vista politico e ideologico. Vale forse la pena di occuparsene, anche perché il frutto avvelenato dell’idea di nazione – il nazionalismo – è tornato d’attualità, mascherato sotto le forme del sovranismo, del populismo e dell’identitarismo, ma sempre accompagnato da forti tratti di protezionismo, illiberalità, autoritarismo e xenofobia.

Se nel corso degli ultimi anni le pulsioni nazionalistiche si sono manifestate soprattutto in alcuni paesi dell’Europa orientale, come la Polonia e dell’Ungheria, è un fatto che la presenza di partiti che si richiamano più o meno apertamente ad esse sono oggi presenti in quasi tutti i paesi europei. E bisogna prendere atto che sono oggetto di un consenso crescente. L’ultimo inequivocabile segnale arriva dalle recenti elezioni amministrative spagnole, dalle quali è uscito fortemente rafforzato Vox, un partito che si richiama apertamente all’esperienza franchista, al quale Giorgia Meloni ha manifestato più volte la propria vicinanza, senza alcun imbarazzo.

Massimo D'Azeglio

Gli ideali del Risorgimento italiano

Nel nostro paese l’idea di nazione ha preso forma in epoca risorgimentale. Sono celebri i versi di Alessandro Manzoni che descrivono l’Italia ‘una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor’. Versi nei quali – occorre ammetterlo - la grandezza dello scrittore non maschera una certa fragilità: all’epoca, la richiamata unità storica, militare e linguistica degli italiani non aveva alcuna solida base, mentre quella religiosa, condivisa con altri popoli, non poteva certo essere assunta come tratto costituente della (presunta) nazione italiana.

Rimaneva il ‘sangue’, il riferimento a un’unità etnica che, quand’anche fosse mai esistita, la storia si era premurata da tempo di superare. I versi manzoniani non sembrano dunque indicare elementi di fatto, quanto piuttosto le tracce di un progetto di costruzione della nazione stessa. E non c’è da stupirsene, poiché anche per l’Italia, come per la maggior parte dei paesi europei, la formazione della nazione è stato il risultato - e non l’origine – del percorso di costituzione dello stato nazionale e del bisogno di quest’ultimo di accrescere il grado di uniformità e integrazione della popolazione dal punto di vista culturale, oltre che politico ed economico.


Coscienza nazionale e miti

Ne era consapevole la classe dirigente postunitaria, che ha profuso enormi energie per la formazione di una coscienza nazionale – per ‘fare gli italiani’, secondo la famosa frase di Massimo D'Azeglio – scegliendo, per questo, di percorrere la strada della centralizzazione dei processi decisionali. Una strada connotata dalla mortificazione delle autonomie locali, dalla costituzione di un esercito di leva reclutato su base nazionale e da una costante opera di formazione e celebrazione di ‘miti nazionali’ spesso enfatizzati rispetto alla loro effettiva portata storica. Occorre tuttavia osservare che l’idea di nazione nella sua forma risorgimentale, ponendo in risalto i tratti spesso labili dell’identità nazionale, si è espressa perlopiù in una forma ‘mite’, orientata in via prevalente verso un’opera di difesa dei veri o presunti caratteri nazionali. Né erano in essa assenti tratti di apertura verso forme di collaborazione tra le nazioni, come nel caso della visione mazziniana, che collocava la realizzazione delle aspirazioni nazionali in un più ampio scenario di cooperazione europea.

Negli ultimi decenni dell’Ottocento, questa forma ‘mite’ dell’idea di nazione ha vissuto una stagione di declino. Concluse le lotte per l’unificazione italiana e tedesca, la competizione tra le nazioni europee si è fatta via via più acuta, mentre sono rapidamente cresciute, all’interno dei singoli paesi, le tensioni sociali causate dall’industrializzazione. In questo nuovo scenario l’idea di nazione si è trasformata e ha finito per alimentare pulsioni nazionalistiche, incardinate su un’idea ‘dura’ d’identità, nella quale è prevalsa una dimensione etnica – quella del ‘sangue’ - come fattore di appartenenza, accompagnata da manifestazioni xenofobe e, in alcuni casi, antisemite.

L'ideologia dell'Ottocento schiava del militarismo

Sul versante internazionale, il nazionalismo ha così potuto assolvere una funzione ideologica di primo piano nel supportare le tendenze imperialistiche presenti nei paesi europei. Nel nostro paese è stato il collante di un disegno politico – quella della sinistra storica – che ha avuto il suo baricentro, oltre che nella repressione delle rivolte popolari, nella trasformazione dell’Italia in potenza militare e nell’avvio di una politica di espansione verso i Balcani e l’Africa. Sul versante interno, ha incarnato l’idea di uno stato autoritario e protezionista, antiliberale e antisocialista. Con l’avvicinarsi del primo grande conflitto mondiale, ha giocato un ruolo di primo piano nella sconfitta del ‘pacifismo’ giolittiano e nella scelta dell’intervento militare italiano.

La Grande guerra è un punto di svolta. L’Europa si ‘suicida’ e perde la sua egemonia mondiale. Nel 1917 l’impero zarista crolla. Gli altri paesi devono fare i conti con i cumuli di macerie materiali, morali e politiche che il conflitto ha lasciato. L’economia, ingigantita all’inverosimile da quattro anni di guerra totale, crolla non appena le commesse belliche vengono a mancare. Le lotte sociali rischiano di travolgere i vecchi ordinamenti. In Italia, gli operai delle città industriali sembrano sul punto di ‘fare come in Russia’. Sul versante opposto, viene coltivato il mito dalla vittoria mutilata, Gabriele D’Annunzio guida i suoi ‘arditi’ a Fiume e Benito Mussolini fonda i ‘Fasci italiani di combattimento’. Dopo anni di scontri sempre più violenti, la sconfitta della classe operaia e l’indebolimento delle vecchie istituzioni liberali consegnano la vittoria al fascismo, che ingloba in sé, trasformandola in parte, l’ideologia nazionalista.

L'idea "mite" piegata ai voleri guerrafondai del Duce

L’intento mussoliniano di trasformare il nazionalismo in leva ideologica di massa – antiliberale e soprattutto antisocialista - è all’origine della commistione, dell’ibridazione dei vecchi motivi del nazionalismo classico, tendenzialmente elitario, con tratti della tradizione socialista. Nasce così il mito dell’Italia ‘grande proletaria’, avanguardia nella lotta per l’emancipazione delle nazioni oppresse dal dominio delle potenze demoplutocratiche. Ogni fattore di tensione interna viene trasferito verso l’esterno e scaricato sui rapporti di forza che governano le relazioni internazionali. Ogni contrasto di classe che turbi l’unità della nazione è colpito da una condanna che travalica la dimensione politica per assumere un valore etico: da contrasto d’interessi, confronto tra prospettive ideali, si trasforma in tradimento.

Poiché l’appartenenza alla nazione è assunta come fattore unico e indiscutibile d’integrazione, la politica come strumento di partecipazione e mediazione perde la sua funzione. Il Parlamento diventa un’aula ‘sorda e grigia’. Al suo posto si afferma il capo – il duce – che, incarnando lo ‘spirito’ della nazione, ne persegue, con lungimiranza e forza, gli interessi. L’idea ‘mite’ di nazione, elaborata in epoca risorgimentale, si trasforma in strumento d’imperialismo verso l’esterno e oppressione interna.


L'allarme: visioni distorte, disumane e antidemocratiche

Tra i lasciti negativi del fascismo all’Italia c’è anche questo: aver distorto e piegato per fini oppressivi l’idea di nazione, edificando solide e giustificate basi per la sua esclusione dal pensiero politico postbellico. E il fatto che questa distorsione – questa uguaglianza di fatto tra idea di nazione, nazionalismo, imperialismo e oppressione - sia entrata a far parte dell’armamentario ideologico dei gruppi neofascisti formatisi negli anni successivi alla fine della guerra, ha ulteriormente accentuato quest’impraticabilità. Nei cinquantaquattro articoli che compongono la prima parte della Costituzione repubblicana il termine nazione è impiegato due sole volte: nell’articolo nove, con riferimento alla tutela del patrimonio storico e artistico, e nell’undicesimo, dove si sancisce il ripudio della guerra per la soluzione delle controversie internazionali.

Ciò nonostante, l’idea di nazione sembra vivere oggi nel nostro paese una seconda fase di giovinezza. Quanto questa idea discenda da quella ‘mite’ di carattere risorgimentale o da quella aggressiva e oppressiva propria dal fascismo, è difficile a dirsi. Il fatto che essa si richiami spesso, apertamente o indirettamente, a un’appartenenza di carattere etnico, al ‘sangue’ – e che tenda a scaricare strumentalmente sull’altro, sullo straniero, le cause delle grandi difficoltà che la nostra comunità nazionale sta vivendo – non permette di formulare previsioni rassicuranti.






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