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La Marcia su Roma e le interpretazioni del fascismo


di Piera Egidi Bouchard


Cento anni fa il fascismo conquistava con la forza e la violenza lo Stato. Come scrisse Angelo Tasca, “la maggior parte degli antifascisti non si rende conto della gravità degli avvenimenti”.[1] E a Benito Mussolini, futuro Duce, riusciva l’ennesima scommessa tipica del giocatore d’azzardo nello stile che sarà una costante della sua vita, fino al tragico epilogo della II Guerra mondiale: ridurre al minimo i rischi dell’impresa. La Marcia su Roma si rivela un capolavoro di furbizia e sagacia nell'organizzazione, strategia, tempismo e ricerca di complicità di ferro. Un autentico colpo di Stato nell’indifferenza apparente dello Stato.

Il 28 ottobre del 1922 il fascismo ha nelle mani l’Italia, ma sottotraccia, convinti di essersi levati di torno la minaccia socialista e comunista, l’Italia liberale e monarchica crede di avere nelle mani il fascismo. Un tragico errore che l’antifascismo non ha neppure tempo di comprenderlo appieno, per la velocità con cui Mussolini porta a compimento l’avvento della dittatura. Sorge allora spontanea la domanda: quale interpretazione offrire del fascismo? A questa domanda hanno cercato di dare una risposta alcuni storici e docenti universitari in dialogo tra loro al Polo del ‘900: Rosaria Peluso (Università Federico II di Napoli), Marco Scavino del Centro studi Piero Gobetti e Marco Revelli (Università del Piemonte Orientale).


Peluso ha illustrato la teoria “della parentesi”, elaborata da Benedetto Croce, sostenendo che questa tesi andava storicizzata. Croce la usò in un discorso a Bari del 20 gennaio del 1944. Discorso rivolto a gruppi di antifascisti quanto agli Alleati, per trasmettere una visione dell’Italia non completamente corrotta dalla “malattia” del fascismo, che è un fenomeno-pericolo non solo italiano: una parentesi di 20 anni nella storia italiana, ma anche europea, mondiale. Si tratta di una metafora, che poi Croce fece diventare una tesi storiografica: una “triste parentesi”, perché per lui la storia è sempre storia del positivo, anche se è un dramma (per Hegel la storia è il reale che si afferma integrando in sé anche il negativo).


La storia è uno scontro continuo tra le forze della salute e le forze della malattia; il fascismo è visto come morbo. E già nel Manifesto degli intellettuali antifascisti del 1925, Croce aveva iniziato una sorta di esame di coscienza, che riprende poi nel dopoguerra, con la riflessione di un liberale rivolto ad altri liberali, ammettendo di aver creduto il fascismo come una sorta di rivitalizzazione di energie nuove. Sarà importante riprendere queste osservazioni - osserva la studiosa - poiché il grande filosofo sarà particolarmente ricordato: sono i 70 anni dalla sua morte, che è nel1952.


Marco Scavino a sua volta ha analizzato la teoria del fascismo come “reazione di classe”, che fu un’interpretazione “a caldo” di origine politica, che ha portato quindi anche a semplificazioni, perché espressa soprattutto nella stampa di sinistra, con la caratteristica di un’affermazione “militante”. Ma valutazioni di segno opposto appaiono anche nella stampa internazionale: famoso è un articolo del Times che salutava l’avvento del fascismo come una “salutare reazione al bolscevismo”. Bordiga a sua volta definì lo squadrismo come un’arma dei proprietari terrieri, una politica di difesa della classe borghese che affondava le sue radici nella piccola borghesia.

E Matteotti stesso scrisse una serie di articoli con analoghe posizioni, mentre Carlo Rosselli nel ’26, nel suo “Autocritica”, sviluppò un’ampia riflessione sul ritardato sviluppo dell’Italia, e sull’immaturità anche delle classi lavoratrici e dei suoi dirigenti. L’elaborazione di Gramsci non fu così schematica come quella del suo partito, e articolò il discorso su “i due fascismi”: quello urbano, della destra liberale, e quello dei centri rurali, aggressivo. E gli unici che non votarono la fiducia al governo Mussolini – ha concluso Scavino- furono i socialisti, i comunisti e i repubblicani.


Marco Revelli ha notato come la Grande Guerra fu il detonatore di tutte le contraddizioni, ma il substrato delle patologie e delle tare storiche italiane preesisteva, e il fascismo ne fu la rivelazione. La definizione che ne dette Piero Gobetti fu la famosa espressione del fascismo come “autobiografia della nazione”: non è un fatto di ordinaria amministrazione, ma è l’espressione di un infantilismo politico, perché il nostro è un popolo condizionato dal dannunzianesimo, espressione di un’antropologia negativa degli italiani, contrassegnata da un’atavica disaffezione alla libertà, da analfabetismo politico, da assenza di serietà e quindi dall’incapacità di austerità. Il nostro presente- ha concluso lo studioso – è l’ennesima riproduzione di questa autobiografia che non sa emendarsi, ed è secondo l’espressione di Umberto Eco, il “fascismo eterno” del nostro popolo, perché impastato di un’origine culturale che riemerge nei momenti di crisi.


[1] Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Universale Laterza, pag. 479

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