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L’eterno “cuneo” della discordia, che fare?

di Anna Paschero|

Il “cuneo fiscale”, è bene ricordarlo per gli amanti di del principe della risata Totò e della sua celebre parodia “uomini di mondo”, non ha niente a che fare con la capitale della “Granda”. Quel cuneo di cui si parla con veemenza quasi barricadera è la differenza, in busta paga, tra lo stipendio lordo e lo stipendio netto di un lavoratore, dopo che al primo sono state sottratte le imposte, le tasse e i contributi. Oppure, dal punto di vista del datore di lavoro, è il rapporto esistente tra il costo del lavoro e il prelievo fiscale e contributivo applicato allo stesso. I governi nazionali che si sono avvicendati nel corso degli ultimi anni hanno cercato, con scarsi risultati, di ridurre questa differenza con provvedimenti quasi sempre inseriti nella Legge annuale di Bilancio. Quest’anno, poi, l’esecutivo guidato da Mario Draghi, sta intervenendo su questo capitolo, anche perché l’Italia si colloca ai primi posti in Europa per tale differenziale. Posizione dovuta principalmente, oltre che ai contributi previdenziali, all’imposta sul reddito delle persone fisiche. Il lavoratore si fa carico dell’imposta e di parte dei contributi previdenziali; il datore di lavoro della restante parte dei contributi previdenziali. Le Organizzazioni Internazionali e l’Europa chiedono da tempo all’Italia di ridurre il costo fiscale e contributivo sul lavoro, perché questa situazione non è incoraggiante per un Paese in cui il lavoro dipendente rappresenta oltre la metà della popolazione attiva, e chiedono di spostare la tassazione sulle rendite e sul patrimonio. Infatti, nell’ultimo rapporto diffuso dall’OCSE “Taxing Wages 2021” (su dati 2020) emergono i differenziali esistenti nei 36 Paesi che fanno parte dell’Organizzazione e l’Italia si colloca al quinto posto con una percentuale del 46% dopo Belgio, Germania, Francia e Austria. La media dei 36 paesi OCSE è del 34,7% (con differenze molto marcate che vanno dal 51,5 al 7% nel caso, rispettivamente, del Belgio e del Cile). Cifre che presuppongono una domanda importante, ma il più delle volte elusa: quale può essere un livello di cuneo fiscale da considerare ottimale o a cui tendere? Al di là del confronto con lo stesso dato e con la relativa media dei Paesi delle organizzazioni a cui aderisce l’Italia, si può affermare che tale livello dipende dalle diverse condizioni dei singoli paesi, dalla loro politica fiscale che, a sua volta, deriva dal grado di intervento nell’economia dello Stato e dalle funzioni ad esso assegnate. Se tutti i Paesi fossero uguali allo stallo di partenza, con condizioni socio economiche e politiche uguali, si potrebbe definire una misura comune, come è successo, ad esempio con i parametri europei definiti nel trattato di Maastricht a cui occorre tendere. Ogni Paese ha le sue peculiarità e i suoi fondamentali economici di cui tener conto. Il peso fiscale di un Paese deve essere piuttosto confrontato alla qualità della spesa pubblica e al suo contributo alla ricchezza complessiva, come disponibilità di beni e di servizi e qualità della vita. Anche la distribuzione del peso tra lavoratore e datore di lavoro è diversamente distribuito, anche nei casi di cunei della stessa dimensione come succede tra Italia e Germania; in quest’ultima, il peso è sopportato principalmente dal lavoratore; in Italia il peso risulta quasi equamente distribuito tra lavoratore e datore. La scelta sulla riduzione o sull’aumento della tassazione (fiscale e contributiva) è una questione delicata di cui la classe politica si assume il peso e la responsabilità, perché è direttamente commisurata alla produzione di servizi pubblici e all’erogazione di prestazioni previdenziali. Non si può chiedere demagogicamente al Governo di ridurre le tasse, e contemporaneamente aumentare il numero dei pensionati e il livello della spesa pubblica. In Italia si può fare – in questo momento di affermata politica espansiva, solo aumentando il deficit – che sfiora oggi il 12% (non superava l’11% dal 1991) e di conseguenza il debito pubblico che è il 150,4% del PIL, pari a 2.723 miliardi di Euro. Numeri che fanno paura. La riduzione della parte a carico dei lavoratori rappresenta un incentivo ai consumi; riducendo quella a carico delle imprese è possibile che esse aumentino gli investimenti, sempre che resista la fiducia nel sistema Paese. Ma ricordiamoci che il tesoretto previsto dalla Legge di Bilancio 2022 di 8 miliardi, la cui modalità di distribuzione, di cui si è ampiamente scritto, resta un punto fermo da parte degli obiettivi di palazzo Chigi e rappresenta un debito aggiunto allo stock esistente. L’incontro con i sindacati di ieri, sembra aver aperto un varco nel granitico disegno del Governo, tanto da indurlo a definire meglio il capitolo “detrazioni” per andare incontro a CGIL, CISL e UIL con una decontribuzione (una tantum) sui redditi più bassi (non oltre 35.000 Euro). Inoltre, sempre di Draghi è la proposta del “contributo di solidarietà” che annullerebbe ogni beneficio fiscale ai redditi superiori ai 75.000 Euro (sono 270 € all’anno) per recuperare risorse per mitigare il caro bollette (sarebbero circa 300 milioni di Euro). Proposta che ha diviso il Governo, con l’approvazione di Leu, del Partito Democratico e una parte del Movimento Cinquestelle, e la contemporanea decisa opposizione dei ministri di centro destra. Lo spazio finanziario per le modifiche parlamentari alla legge di bilancio resta in ogni caso limitato, a meno di ridurre le spese. Ma l’epoca dei tagli ai bilanci sembra finita. La mediazione tra le policrome forze politiche di maggioranza rende difficile chiudere, come sarebbe auspicabile, il capitolo della legge di bilancio con soluzioni in grado di coniugare lo sviluppo, a cui tende l’intera manovra, all’equità, che non sarebbe disgiunta dal suddetto obiettivo. Si può fare, ma solo superando gli interessi di parte con uno sguardo più attento al bene della comunità.

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