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Il “Tridico” della discordia e la chimera delle pensioni


di Emanuele Davide Ruffino ed Edmondo Rustico


Un vecchio motto ammoniva che quando Parigi starnuta, l’Europa sta male, ma i tempi devono essere cambiati se il quotidiano britannico The Guardian si chiede: "Perché [sulle pensioni] gli italiani non scendono in piazza come in Francia?". Sull’argomento la confusione è notevole. Emblematico è l’atteggiamento del presidente dell’Inps Pasquale Tridico, che pochi mesi fa proponeva un’uscita a 62/63 anni di età, purché si effettuasse un calcolo esclusivamente basato sul sistema contributivo, e poi una seconda quota solo a 67 anni, quando l’importo della pensione sarebbe tornata a comprendere quella quota retributiva precedentemente non conteggiata. Ora Pasquale Tridico terrorizza con previsioni disastrose sulla sostenibilità del sistema, se non si mantiene la Fornero. Si capisce la necessità di accondiscendere alle esigenze politico-elettorali, ma un po’ più di coerenza da parte dei tecnici sarebbe auspicabile.


Il caos delle non proposte

I partiti sono tutti dilaniati, già al loro interno, tra promettere tutto a tutti e il dover fare i conti con la situazione economico finanziaria che riporta alla realtà. Già nello scorso gennaio si era affermato “qualsiasi riforma purché si faccia”[1] e all’epoca erano pochi quelli che prevedevano un blocco delle trattative sulla riforma, e sul fatto che fosse meglio una riforma strutturale e duratura piuttosto che continuare a giochicchiare con le quote e con le prebende. Probabilmente vi è consapevolezza della situazione, ma un superamento dell’attuale stallo comporterebbe perdere consenso o semplicemente l’opportunità di contestare la controparte (atteggiamento sempre redditizio in un Paese come il nostro sempre in fase pre-elettorale). Nessuno conosce il futuro, ma fare previsioni a proprio uso e consumo, è un esercizio che sembra appassionare gli indecisionisti e non obbliga a prendere posizioni.

L’intero sistema del welfare italiano (pensioni, sanità e funzionamento della pubblica amministrazione) costa più di 518 miliardi (circa il 50% dell’intera spesa pubblica che a sua volta rappresenta circa il 50% del PIL), con un ritmo di crescita notevole: tra il 2012 e il 2021, l’aumento il welfare è cresciuto del 20%, mentre il PIL solo del 10%. Anche distinguere con chiarezza la spesa previdenziale dalla spesa assistenziale sembra un tabù. In totale le pensioni erogate al 1° gennaio erano 17.718.685, di cui 13.685.475 (77,2%) di natura previdenziale e 4.033.210 (22,8%) di natura assistenziale (invalidità civili, indennità di accompagnamento, pensioni e assegni sociali), per un costo di 231 miliardi di cui 206,6 sostenuti dalle gestioni previdenziali 24,4 miliardi da quelle assistenziali. Ma non essendo ancora a regime il sistema contributivo, il peso che la collettività deve sopportare è notevole, anche per la quota previdenziale. Nel 2022 il 46,5% delle nuove pensioni è rientrata nel capitolo assistenza, accentuando così il primato italiano per la spesa in pensioni assistenziali e ai superstiti (19,9% verso una media EU dell’15,9%). E quattro punti in percentuale di differenza non sono uno scherzo!

Nell’ambito delle erogazioni previdenziali, il Fondo Pensioni dei Lavoratori Dipendenti gestisce il 45,2% del complesso delle pensioni erogate e il 58,1% degli importi in pagamento; per contro le gestioni dei lavoratori autonomi erogano il 28,3% delle pensioni, per un importo pari al 24,6% del totale. Osservando le differenze di genere si rileva una significativa differenza di 4,7 anni dei percipienti: 71,5 anni media per gli uomini e 76,2 anni per le donne (media complessiva 74,1 anni): le donne percepiscono meno, ma per più anni.

In questo scenario promettere o richiedere ulteriori aumenti di spesa pare poco praticabile ed allora anziché affrontare il problema nella sua interezza ci si limita a richiedere attenzione verso specifiche situazioni: dipende dalla platea che si ha di fronte.


La protesta inesistente

C’è da chiedersi se noi italiani siamo più responsabili dei cugini francesi o, dopo avere erogato pensioni con 20 anni sei mesi di contributi, siamo consci che oggi ne stiamo sopportando le conseguenze. La protesta francese anziché sviluppare un dibattito anche da noi, blocca i partiti per la paura di trovarsi a fronteggiare proteste nostrane: chi metterà mano alla riforma delle pensioni dovrà accettare un’emorragia di voti, ma il problema non può essere rimandato all’infinito. Quello che non si capisce è perché sia in Italia, sia in Francia si continui a spendere su tutti i fronti (oltralpe il deficit pubblico è pari al 4,7% del PIL e il debito pubblico è al 111,6%), ma sulle pensioni si è disposti a portare la nazione agli scontri di piazza.

Anche il Regno Unito è scosso da ondate di proteste che non si vedevano da decenni (il 1° febbraio, mezzo milione di lavoratori di tutti i settori ha scioperato per protestare contro il costo della vita e per chiedere salari più alti, chiudendo le scuole, interrompendo i trasporti e mettendo in crisi i servizi sanitari). Proteste stanno crescendo anche in Portogallo, Romania, Bulgaria, mentre l’Italia, storicamente piagnona, sembra non accorgersi di quello che sta succedendo, oppure le forze che dovrebbero organizzare il dissenso non si sentono più legittimate a proporre proteste di massa: ci si dibatte tra la consapevolezza dell’inutilità di certe manifestazioni (che come in Francia possono degenerare in violenza) e la volontà di tornare a riempire le piazze, consci però che il lancio di proposte irrealizzabili, come quelle espresse in campagna elettorale 2022, si rischia di perdere credibilità. Ed allora si attende un niet dell’Europa per poter giustificare lo status quo (i cosiddetti falchi, dopo le politiche espansive resesi necessarie con contrastare gli effetti della pandemia, difficilmente permetteranno ulteriori crescite dei disavanzi pubblici o altre forme di finanza allegra).

In realtà qualche cosa si muove: con la legge di Bilancio 2023, sono stare riviste le regole di rivalutazione, riducendo la percentuale per quegli assegni d’importo superiore a 4 volte il trattamento minimo (circa 2.100 euro lordi).

Chi ha percepito, per anni, più di quello che ha versato, ora deve accettare un minor adeguamento, gravando così un po’ meno sulle generazioni che seguono e che già sanno che non potranno godere degli stessi trattamenti. La manovra ha permesso di correggere l’andamento della spesa pensionistica per 10 miliardi. Un’operazione a forte connotazione egualitaria, ma che non può da sola risolvere le anomalie della giungla pensionistica che si è andata a creare in Italia con il susseguirsi di interventi parziali e clientelari.

Se non si può ristabilire un’equità generazionale, gli errori del passato dovrebbero almeno fare da monito al presente portando le parti sociali (partiti, sindacati ed imprenditori) a cercare soluzioni sostenibili per il sistema e non operazioni di maquillage che lasciano il mondo del lavoro nell’incertezza e nell’impossibilità di avviare concrete programmazioni industriali, superando così l’incertezza di quando le proprie maestranze potranno lasciare il lavoro e l’Italia ad avere la pubblica amministrazione più vecchia d’Europa.


[1] Riforma pensioni: alzi la mano chi non la vuole... in https://www.laportadivetro.com/post/riforma-pensioni-alzi-la-mano-chi-non-la-vuole





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