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L'Editoriale della domenica. Referendum Giustizia: voglia di cancellare falsi miglioramenti

di Rocco Artifòni


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Entro la prossima primavera si terrà il referendum costituzionale sulla Giustizia (senza quorum). Gli italiani saranno chiamati ad esprimere un giudizio sugli obbiettivi della riforma, il cui contenuto riassumiamo in quattro punti: 1) La separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri; 2) Lo sdoppiamento del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM). 3) L’istituzione di una Alta Corte Disciplinare (ACD).4) La modifica del sistema di scelta dei membri dei CSM e della ACD (sorteggio).

Nella logica dei Costituenti il referendum costituzionale dovrebbe essere lo strumento di "riserva" a disposizione delle minoranze parlamentari, delle Regioni (nate nel 1970), dei cittadini nei confronti della maggioranza parlamentare. Ora, premesso ciò, non è partigiano constatare che la richiesta di referendum, avanzata dalla stessa maggioranza che ha approvato il testo di revisione della Costituzione, sia in tendenziale contrasto proprio con lo spirito dei nostri Padri costituenti. Una visione populista e plebiscitaria della democrazia?

Il testo del disegno di legge della riforma costituzionale è stato presentato al Parlamento da Giorgia Meloni (presidente del consiglio dei ministri) e da Carlo Nordio (ministro della giustizia). Nell’iter parlamentare (con 4 passaggi, 2 alla Camera e 2 al Senato) non è stato modificato nulla, nemmeno una virgola. Di fatto, il governo ha imposto al Parlamento la propria volontà sic e simpliciter. Il che produce l'eco delle parole di Piero Calamandrei, pronunciate nel 1947: «Quando l’Assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del Governo dovranno essere vuoti; estraneo deve rimanere il Governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’Assemblea sovrana».

La Costituzione, infatti, non prevede che sia il governo a legiferare o a dettare legge, a maggior ragione se si tratta di leggi costituzionali. All'opposto, da decenni si assiste a una preoccupante inversione di marcia, con il governo che abusa dello strumento del decreto legge, che dovrebbe essere adottato soltanto “in casi straordinari di necessità e di urgenza” (art. 77 Cost.). Le statistiche mostrano come tre quarti delle leggi approvate sono di origine governativa.

La massima di Montesquieu è nota, ma è sempre bene ricordarla: «Se il potere esecutivo fosse affidato a un certo numero di persone tratte dal corpo legislativo, non vi sarebbe più libertà, perché i due poteri sarebbero uniti, le stesse persone avendo talvolta parte, e sempre potendola avere, nell'uno e nell'altro».

Se passiamo alla relazione illustrativa del disegno di legge costituzionale presentato dal Governo, con cui indirettamente si ritorna ad alcuni dei punti sopra elencati, si può leggere: «La riforma costituzionale trae origine dal riconoscimento dei princìpi del giusto processo nel novellato art. 111 della Costituzione, dall’evoluzione del sistema processuale penale italiano verso il modello accusatorio e da obiettivi di miglioramento della qualità della giurisdizione». Il giusto processo è una nozione elaborata soprattutto dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, a cui sono connessi alcuni elementi: parità delle parti, effettività del contraddittorio, terzietà del giudice, ecc.

Se l’accusa e la difesa sono sullo stesso piano di fronte al giudice imparziale, di conseguenza, il pubblico ministero dovrebbe essere formalmente e sostanzialmente distinto dal giudice, per evitare che quest’ultimo sia condizionato dal PM, perché appartiene allo stesso Ordine della magistratura.

In realtà la Corte Costituzionale in diverse sentenze ha chiarito che «accusa e difesa agiscono secondo regole e finalità irriducibilmente diverse» e che il processo è caratterizzato «da una asimmetria strutturale tra i due antagonisti principali» (cioè tra accusa e difesa). Questo a causa dei «differenti interessi dei quali le parti sono portatrici», perché «l’una è un organo pubblico che agisce a tutela di interessi collettivi; l’altra è un soggetto privato che difende i propri diritti fondamentali».

L’imputato può tacere e persino mentire sui fatti che lo riguardano, poiché la legge non obbliga a testimoniare contro sé stessi. Invece il PM - come il giudice - è sempre tenuto a cercare la verità. Ad esempio, l’art. 408 del Codice di procedura penale stabilisce che «quando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna (…) il pubblico ministero presenta al giudice richiesta di archiviazione».

Il prof. Renato Balduzzi ha scritto che «l’esistenza di un CSM unitario rappresenta il più esplicito indicatore e, al contempo, il primo vincolo costituzionale nel senso della unitarietà della magistratura titolare del potere di esercitare la giurisdizione. La creazione di due organi separati altera quel modello perché punta alla formazione di due magistrature non solo funzionalmente, ma pure istituzionalmente e culturalmente distinte».

Il prof. Nicolò Zanon ha avvertito sul rischio che il PM diventi un organo destinato a rappresentare la forza sostanziale e inquietante della funzione d’accusa, accresciuta dal fatto di essere protetta e garantita da proprio CSM del tutto autonomo. In altre parole il PM rischia di essere trasformato in un avvocato accusatore.

In sintesi, si può affermare che nel nuovo assetto dei due CSM, il PM potrebbe tendenzialmente assumere un potere inquisitorio scisso dalla funzione giudicante, autoreferenziale in quanto sottratto a qualsiasi forma di controllo e di confronto con la magistratura giudicante.

Infatti, la creazione di due distinti organi di governo della magistratura potrebbe portare all’elaborazione separata e settoriale delle regole che presiedono all’organizzazione degli uffici relativi alle funzioni requirenti e giudicanti. Verrebbe meno l’interazione e una riflessione comune tra i due soggetti dell’ordine giudiziario. Potrebbe persino emergere il rischio di un conflitto tra i poteri dei due CSM distinti.

A questo punto sorge spontanea la domanda se davvero esistano gli «obbiettivi di miglioramento della qualità della giurisdizione», fragorosamente sbandierati dal governo nella relazione illustrativa del progetto di revisione costituzionale. In realtà, e in ultima istanza, non si capisce quali sia il miglioramento - parola peraltro usata come un mantra per tutte le stagioni dal governo Meloni - poiché le modifiche nulla hanno a che fare con l’efficienza della giustizia e la tempistica delle sentenze. In compenso, non a caso, la "riforma" lascia inalterata tutte le criticità dell’attuale sistema giudiziario: carenza del personale amministrativo, insufficienza di magistrati, arretratezza nella digitalizzazione, strutture inadeguate, ecc., tralasciando tutti i problemi relativi alla situazione carceraria.

Pretesti evergreen, viene da pensare con malizia - ma a pensare male a volte ci si azzecca - per proseguire a governare l'ordinario come se si fosse in uno stato di perenne e straordinaria necessità e urgenza. Con buona pace del confronto parlamentare e, dunque, della democrazia.

 


 

 

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