Ha ancora senso parlare di lavoro?
- Savino Pezzotta
- 1 giorno fa
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Aggiornamento: 2 ore fa
Riflessioni di un sindacalista che ha cambiato prospettiva
di Savino Pezzotta

Per gran parte della mia vita ho creduto che il lavoro fosse il centro di tutto. Come sindacalista, ho lottato per i diritti dei lavoratori, per salari più giusti, per la sicurezza, per la dignità. Il lavoro era la misura dell’esistenza, il fondamento della cittadinanza, la condizione stessa della libertà. Credevo che difendere il lavoro significasse difendere l’uomo.
Oggi, però, mi accorgo che qualcosa si è incrinato. Non sono più sicuro che continuare a parlare di lavoro con le stesse categorie di un tempo abbia ancora senso. Il mondo è cambiato, e anche la mia visione è cambiata con esso. Come tutte le attività umane anche il lavoro cambia di significato cambiano con il mutarsi della società.
1. La fede nel lavoro
Per decenni la nostra società ha vissuto sotto il segno della centralità del lavoro e si è adeguata all'idea che l’uomo valesse in base a quanto produce, che la sua dignità derivi dal suo mestiere, che la felicità si conquisti attraverso il fare. Anch’io, come tanti, ho condiviso queste idee, era la base stessa del movimento sindacale: il lavoro come diritto, come strumento di emancipazione.
Eppure, se mi guardo attorno e volgendo lo sguardo su come si è articolata l'occupazione e guardando i volti dei lavoratori precari, dei giovani che non trovano un posto, dei cinquantenni espulsi dal sistema, mi sono chiesto: che senso ha difendere un modello di lavoro che non libera più, ma imprigiona? Il lavoro è diventato sempre più frammentato, impersonale, schiacciato da ritmi e tecnologie che non lasciano spazio all’uomo. È rimasto il nome, ma ne è svanito il significato.
2. La crisi del lavoro e la crisi di senso
Oggi viviamo in una società che produce senza tregua, ma non sa più a che scopo. L’efficienza è diventata un valore assoluto, e il lavoratore è ridotto a ingranaggio di un meccanismo che si autoalimenta.L’automazione, la digitalizzazione, l’intelligenza artificiale: tutto sembra costruito per liberarci dal lavoro, ma paradossalmente ci vincola ancora di più. Lavoriamo per restare occupati, non per realizzarci.
Ho così iniziato a capire che non basta difendere il lavoro: bisogna ripensarlo.Non serve solo “più occupazione”, ma un’altra idea di lavoro — o forse un’altra idea di vita. Perché se il lavoro non è più garanzia di dignità, bisogna cercare altrove ciò che può restituire senso.
3. Oltre la centralità del lavoro: il valore dell’attività umana
Superare l'idea della centralità del lavoro non significa rinunciare ad esso, ma ricollocarlo in un orizzonte più umano. Dobbiamo imparare a distinguere tra l'”operare” e il “lavorare”: l'operare è espressione di creatività, di relazione, di utilità sociale; il lavorare, così come oggi lo intendiamo, è spesso solo obbedienza a una logica produttiva che non ci appartiene più.
Ciò che ho compreso nel tempo è che l’attività umana vale non quando genera profitto, ma quando genera vita condivisa. Un genitore che si prende cura di un figlio, un volontario che aiuta la propria comunità, un artigiano che ripara un oggetto con passione — tutti questi gesti sono lavoro, anche se non producono reddito o beni.
Il sindacato del futuro, se vuole restare fedele alla sua missione originaria, dovrà difendere non solo il diritto al lavoro, ma anche il diritto al tempo, alla cura, alla partecipazione, alla libertà di agire senza essere schiavi della produttività.
4. Ripensare la tecnica e la società
Il problema non è la tecnologia, ma l’uso che ne facciamo. Le macchine potrebbero davvero liberarci da molte fatiche, se solo accettassimo di ridurre il lavoro e di ridistribuirlo. Ma continuiamo a inseguire la crescita infinita, come se fosse un fine e non un mezzo.
Oggi mi sembra chiaro che serva un’economia più sobria e cooperativa, fondata sulla condivisione, sulla prossimità, sulla misura.
Laddove il lavoro è tornato comunità — nei progetti di economia solidale, nelle cooperative sociali, nelle imprese etiche — lì ho visto rinascere un senso: non più produzione, ma partecipazione.
5. Un’altra idea di libertà
La mia prospettiva è cambiata anche sul piano personale.
Un tempo pensavo che la libertà si conquistasse attraverso il lavoro; oggi credo che la libertà inizi quando il lavoro non domina più la vita.
L’obiettivo non è più il pieno impiego, ma il pieno sviluppo della persona. Per questo servono politiche nuove: la riduzione dell’orario lavorativo, il reddito di base, il riconoscimento delle attività di cura e di volontariato. Non per abolire il lavoro, ma per liberarlo dalla tirannia dell’obbligo.
6. Un sindacato del futuro
Forse il sindacato del XXI secolo dovrà cambiare pelle.
Non più solo difensore del posto di lavoro, ma custode della dignità umana in tutte le sue forme. Dovrà battersi per un equilibrio nuovo tra tempo, reddito, ambiente e comunità. Dovrà imparare a difendere anche chi lavora “fuori dal lavoro”: studenti, genitori, volontari, cittadini attivi. Perché la società del futuro non si reggerà più sull’idea di un lavoro unico e totalizzante, ma su una pluralità di attività libere e solidali.
Conclusione
Oggi, quando mi chiedono se “ha ancora senso parlare di lavoro”, rispondo di sì — ma a patto di cambiare completamente il significato della parola. Il lavoro non può più essere un idolo. Deve tornare a essere un mezzo, un linguaggio, un gesto umano tra gli altri. La dignità non nasce dal mestiere che svolgiamo, ma dalla capacità di costruire relazioni, di contribuire alla vita comune, di vivere con misura e solidarietà.
Come sindacalista, ho capito che la vera battaglia non è per il lavoro, ma per la libertà nel lavoro — e, qualche volta, anche oltre il lavoro.











































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