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La dignità della pena "certa" umiliata nei CPR

Aggiornamento: 8 minuti fa

di Guido Tallone


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Credo necessario proseguire la riflessione avviata dall’articolo di Nicola Rossiello Il CPR bloccato dal Consiglio di Stato,[1] e vivificata dal commento di Sveva Sapino (Segretaria Metropolitana dei Giovani Democratici di Torino) e di Federico Raia (Segretario dei Giovani Democratici di Torino), per ribadire – con forza – quanto il tema della privazione della libertà attuata dallo Stato sia prassi tra le più complesse, delicate, articolate, composite e fragili che ci possano essere. Non entro nel merito degli aspetti tecnici della sentenza e della vicenda denunciata da Rossiello e per alcuni versi silenziata per settimane.

Mi preme sottolineare il fatto che sempre, quando lo Stato di diritto decide di privare della libertà una persona presente sul nostro territorio (cittadino italiano o immigrato), esercita una violenza. Nel caso di chi ha commesso dei reati questa violenza è ritenuta “necessaria” (per mille ragioni alcune delle quali anche valide); nel caso di immigrati colpevoli solo di aver sognato un futuro migliore per fuggire a guerre e miseria, la detenzione diventa “violenza del tutto gratuita”, illegittima e persino illegale.

Restiamo al caso di chi ha commesso qualche reato. La violenza che viene inflitta con il carcere “può” guarire il detenuto (e in alcuni casi, purtroppo troppo pochi, accade), ma resta il fatto che sempre la detenzione, con la sua privazione di libertà, ammala. Sempre. Anche se la pena viene scontata agli arresti domiciliari.

E tutto questo per una ragione molto profonda: perché la libertà non è solo “uno” dei diritti di cui siamo portatori, ma il fondamento, la premessa e la struttura portante di ogni persona. Senza libertà è inevitabile che ci si ammali: perché quella restrizione dei movimenti, chiude anche il cuore, gli affetti, le relazioni, i sogni, le speranze e la voglia di vivere. I suicidi e i tentati suicidi in carcere sono la visibilità del fatto che la violenza che priva di libertà un soggetto, prepara – spesso e volentieri (e in casi molto superiori a chi è fuori dal carcere) – la voglia di togliersi la vita.

L’opinione pubblica si è abituata alla richiesta – portata avanti da quasi tutte le forze politiche – di avere “pene certe”, a proposito di carcere, sentenze, pene detentive. E di solito si intende, con questa ingiusta e scorretta formulazione, la capacità dello Stato di tenere in cella il più possibile chi ha sbagliato. Solo questo. E niente di più di questo.

L’augurio è che il Consiglio di Stato ci possa aiutare a modificare l’interpretazione di questa definizione e che, se proprio la si deve usare, si intenda per “pena certa” solo quella che viene amministrata in strutture rispettose della dignità umana; dove la cura sanitaria della persona privata della libertà è garantita da cure autentiche e competenti. “Pena certa” perché in grado di garantire quelle relazioni affettive che aiutano a sopportare la violenza della privazione della libertà. “Pena certa” perché al detenuto viene dato e riconosciuto il diritto al lavoro senza il quale la violenza della detenzione diventa tortura. “Pena certa” perché si consuma in un carcere dotato di spazi adeguati ai detenuti e in grado di garantire un’accoglienza civile, dignitosa e rispettosa dei diritti fondamentali della persona.

Pena certa” perché – in due parole – è così ancorata alla nostra Costituzione da rendere certo il rispetto dei diritti fondamentali di ogni detenuto.

Ma vado oltre: “Pena certa” perché ci ricorda che lo Stato non può e non deve privare della libertà chi è innocente, chi non ha commesso reati e chi è immigrato: con o senza permesso di soggiorno. Proprio perché si chiama “pena” non può e non deve essere amministrata a chi ha la sola colpa di essere immigrato.

Senza una mobilitazione culturale che rivista i nostri schemi culturali e il nostro vocabolario, non avremmo mai quelle riforme legislative che ci devono allontanare dalla illegalità esercita dallo Stato.


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