La consapevolezza di una lotta per restituire la vita a Gaza
- Stefano Marengo
- 22 set
- Tempo di lettura: 5 min
di Stefano Marengo

Il 22 settembre 2025 sarà d’ora in poi una data da ricordare per il nostro Paese. Lo sciopero generale per Gaza indetto dai sindacati di base ha avuto un indiscutibile successo, con presidi e manifestazioni in quasi cento città e blocchi effettuati in alcuni tra i più importanti snodi logistici della penisola. Ma qui non si tratta soltanto di numeri, per quanto l’assenza dei tre grandi sindacati confederali metta in risalto ancora di più un’adesione da parte dei lavoratori che è andata ben oltre ciò che all’inizio ci si poteva realisticamente attendere.[1]
Lo sciopero, come già la manifestazione torinese di sabato 20 settembre [2] e altre iniziative analoghe, è stato un momento di risveglio della coscienza collettiva del paese, o almeno di una sua parte molto consistente, la cui misura è data dal fatto che la piattaforma della mobilitazione non insisteva su circoscritti temi nazionali, bensì sul senso di solidarietà e giustizia nei confronti di un popolo che, dall’altra parte del Mediterraneo sta subendo un genocidio tra i più sadici ed efferati.
Per quanto ci si possa sforzare, è difficile trovare nella storia recente del nostro paese – e con questo s'intende un periodo di tempo piuttosto lungo, diciamo gli ultimi 30 o 40 anni – una mobilitazione di tenore analogo. Una mobilitazione, cioè, che ha alla sua base la difesa dei principi più basilari della dignità della vita. Lo sguardo gettato nell’abisso di dolore e orrore di Gaza, lo strazio quotidiano della distruzione, di corpi mutilati e morenti ed esistenze brutalizzate in ciò che hanno di più intimo ed essenziale, non ci ha fatto fuggire alla ricerca di una zona di sicurezza politica ed emotiva. Lo sdegno e l’angoscia individuali, al contrario, si sono articolati a livello collettivo in una marea militante che, in questi due anni, non ha fatto che crescere di mese in mese.
Anche per questa ragione è importante sottolineare come i protagonisti di queste giornate di manifestazioni, insieme a studenti, lavoratori e cittadini di ogni estrazione, siano state innumerevoli famiglie con i loro bambini. Di fronte allo sterminio di decine di migliaia di minori operato dallo Stato di Israele, la loro non è stata una semplice presenza, ma la testimonianza della vita che resiste nella fragilità e che anche in Palestina tornerà a rifiorire nonostante il fanatismo di Netanyahu e dei suoi complici.
Tutto ciò non è comunque espressione di un generico afflato umanitario. Proprio perché lo sterminio in corso a Gaza ha toccato le corde profondissime di un sentimento di giustizia offeso, chi scende in piazza sa benissimo che la lotta per fermarlo è inseparabile dalla lotta della resistenza per la liberazione della Palestina. Così, se gli obiettivi immediati consistono nell’esercitare pressione sul governo italiano perché metta fine alla complicità con Israele e blocchi ogni scambio con Tel Aviv, l’obiettivo di più ampia portata è il sostegno politico al popolo palestinese affinché, dopo quasi otto decenni, possa scrollarsi di dosso l’apartheid imposta manu militari.
È proprio questa la sfida che le piazze d’Italia e del resto del mondo lanciano alle classi dirigenti politiche, le quali, quando non sono allineate al progetto di pulizia etnica israelo-americano, sembrano cullare l’impossibile speranza di un ritorno allo status quo ante genocidio – ossia a una condizione di oppressione del popolo palestinese che “non fa notizia” – oppure rilanciano meccanicamente la stanca litania dei “due popoli die stati”, una soluzione che, se mai è stata possibile (e c’è da dubitarne), è definitivamente naufragata con la devastazione coloniale della Cisgiordania e la distruzione di Gaza. L’unico punto di caduta accettabile per la risoluzione della questione palestinese è la creazione di uno stato unico binazionale, laico e democratico su tutto il territorio della Palestina storica.
La discussione potrà riguardare i modi per conseguire questo obiettivo, non certo l’obiettivo in sé, e saranno innanzitutto i palestinesi, privati di ogni diritto dal 1948, a doversi esprimere al riguardo. I governi d’Europa e dell’intero occidente, da sempre alleati di Tel Aviv, non dovranno poter avere diritto di tribuna. Così come Israele – che alcuni, in malafede o incantati dall’ideologia, si ostinano a considerare una democrazia, nonostante l’occupazione militare che dura da decenni, le discriminazioni legali su base etnica, le incarcerazioni politiche, le torture, la colonizzazione sfrenata e la violenza eretta a sistema – non potrà più avere il diritto a sostenere i suoi distinguo politici. Essere tiepidi su questo punto e prestare ancora ossequio alla narrazione del governo di estrema destra significa semplicemente sdoganare la logica dello sterminio nella regolazione delle relazioni internazionali.
Il percorso per affermare nel concreto questi principi minimi di moralità e giustizia è ancora lungo e non si deve credere che alcuni recenti riposizionamenti delle classi dirigenti europee vadano nella direzione giusta. Se la Commissione von der Leyen ha proposto contro Israele misure sotto il minimo sindacale, peraltro con la certezza che non otterrà mai l’unanimità da parte del Consiglio europeo per poterle applicare, la decisione di alcuni paesi di riconoscere lo stato palestinese, tra i quali non figura l’Italia di Meloni, appare più come una manovra diversiva che una scelta animata da autentico desiderio di giustizia. Il caso del Regno Unito è paradigmatico. Infatti, mentre qualche giorno fa Keir Starmer annunciava in TV la recognition della Palestina, gli aviatori della RAF di stanza a Cipro stavano probabilmente sorvolando Gaza per effettuare rilevamenti su infrastrutture e movimenti della popolazione: un altro tipo di recognition, diciamo, effettuato per fornire a Israele informazioni chiave per stabilire dove concentrare i bombardamenti.[3] In queste condizioni è ben difficile credere nei buoni propositi di Downing Street, le cui azioni rivelano obiettivi molto meno nobili. Il riconoscimento della Palestina, che ha un valore puramente formale, per Starmer è funzionale a smarcarsi dall’abbraccio asfissiante con gli Stati Uniti di Trump e a provare a riassorbire il movimento per la Palestina che proprio nel Regno Unito ha dimostrato una fortissima vitalità ed è ormai al muro contro muro con il governo. In definitiva, quella del primo ministro laburista è la tattica del “lip service”, dei proclami verbali e dei formalismi di facciata volti a prendere tempo mentre nel concreto l’indirizzo politico non cambia di una virgola.
L’esempio britannico lascia intendere che, in questa fase più che in altre, è opportuno diffidare delle apparenze e non abbassare la guardia rispetto alla situazione sul campo a Gaza e in Cisgiordania. Occorre tuttavia non sottovalutare i vantaggi che si possono trarre anche dal riconoscimento strumentale dello stato palestinese. Il fatto stesso che si sia arrivati a questo punto è indice di una grande debolezza da parte dei governi occidentali o, se si vuole, è il primo manifestarsi di una crepa che è compito del movimento per la liberazione della Palestina allargare sempre più, fino al punto di farla diventare voragine. Detto altrimenti, il riconoscimento della Palestina può diventare uno strumento di lotta nella misura in cui si pretende dai governi di essere conseguenti rispetto alle loro scelte.
Se un governo riconosce la Palestina come può accettare o, peggio, sostenere la scomparsa del suo popolo? Come può far finta di nulla di fronte alla colonizzazione, all’occupazione e all’apartheid messi in pratica dalla finta democrazia israeliana? E come può non pretendere che Israele smetta di fare carta straccia di tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite, a partire dalla 194 del 1948 che sancisce il diritto al ritorno nelle loro case e nelle loro terre dei palestinesi vittime della pulizia etnica che fu l’atto fondativo di Israele stesso? Questione accantonata storicamente e dunque irrisolta politicamente.
Mentre le bombe israeliane mietono ogni giorno centinaia di vittime a Gaza, queste domande sintetizzano quello che, qui in Europa, sarà sicuramente uno dei nuovi fronti di lotta. Dopo il grande sciopero in Italia, che parecchia risonanza ha avuto a livello internazionale, c’è da credere che altri paesi seguiranno l’esempio. La certezza è che gli eventi di questi giorni non costituiscono un punto di arrivo, ma segnalano il raggiungimento di una maggiore consapevolezza e maturità politica dell’intero movimento. Sono conquiste fondamentali per continuare una battaglia che sarà ancora molto lunga.
Note
[2] https://www.laportadivetro.com/post/torino-la-marcia-del-risveglio-per-la-salvezza-della-palestina
[3] Il coinvolgimento della RAF nella distruzione di Gaza è stato oggetto di diversi approfondimenti sulla stampa anglosassone, in particolare da parte del “Guardian”. Si veda, ad esempio, il seguente link: https://www.theguardian.com/politics/2025/aug/07/uks-surveillance-flights-over-gaza-raise-questions-on-help-for-israeli-military













































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