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Guerra ad oltranza e miopia politica di Israele

di Maurizio Jacopo Lami


"Ci sono momenti storici in cui è sufficiente fare il semplice elenco degli ultimi avvenimenti per comprendere la gravità della situazione"

Abramo Lincoln, Presidente degli Stati Uniti, 1862


Decapitati i vertici di Hamas

Il 23 dicembre un attacco di missili lanciato sulla Siria da Israele uccide una ventina di Guardiani della Rivoluzione, cioè i miliziani iraniani islamisti di fede sciita principale bastione del regime degli Ayatollah di Teheran. Erano in Siria per sostenere il regime dell'alleato Assad, ma soprattutto per organizzare attacchi semiclandestini contro Israele. La loro morte è il maggior colpo lanciato apertamente da Tel Aviv contro Teheran negli ultimi anni.

Il 25 dicembre, sempre dalla Siria, arriva una notizia davvero poco natalizia: viene ucciso con un attacco aereo addirittura il più importante esponente dei Guardiani della rivoluzione, il generale iraniano Seyed Razi Mousavi; la sua morte è un colpo tremendo sia per l'Iran che per Hamas, perché Razi era l'organizzatore del complicatissimo movimento di armi e denari fra le due entità. Con la sua uccisione, l' IDF ha ottenuto plurimi obiettivi: ha eliminato il dirigente più capace dei Guardiani, ha reso più complicati i rapporti di Hamas con l'Iran e ha mostrato a tutti che il regime iraniano, al di là delle tante minacce apocalittiche, non riesce nemmeno a proteggere i propri principali dirigenti. Razi era in ascesa come dirigente e uccidendolo si è prodotto un grande sconquasso nell'organizzazione, nonostante tenda ad assorbire i colpi per il numero elevato di dirigenti.

Il 3 gennaio, ieri l'altro, si registra il colpo magistrale, quello che in gergo pugilistico è considerato fuori combattimento. La notizia arriva non già dalla Siria, bensì dal Libano, nella sempre bollente Beirut, dove ogni cosa sembra possibile. Si era rifugiato nella capitale, a Dahiyeh, uno dei quartieri roccaforte di Hezbollah, l'organizzazione libanese filo iraniana, Saleh al Arouri, 58 anni, esponente di massimo rilievo di Hamas, il corrispettivo del generale Razi. Al Arouri, rimasto seppellito sotto le macerie di un edificio colpito da un bombardamento che il portavoce israeliano Mark Regev ha definito come “chirurgico”, era considerato il rappresentante degli ayatollah, il dirigente che aveva deciso di legarsi agli uomini di Ali Khamenei, la Guida Suprema dell'Iran. Una scelta dettata anche dalle necessità finanziarie di Hamas. Indifferibile, ma che per contrasto gli aveva procurato la massima attenzione da parte del Mossad, il servizio segreto israeliano. La sua morte, su cui Tel Aviv è rimasta finora silente, ha nei fatti reciso un altro filo che legava Hamas a Hezbollah e di riflesso a Teheran.

Al-Arouri stava partecipando ad un'importante riunione operativa con alcuni dei suoi principali collaboratori, in particolare con Samir Fendi, coordinatore delle attività militari in Libano e responsabile dei rapporti con i miliziani Houti dello Yemen; altro partecipante importante alla riunione era Azzam al Aqraa, referente per i militanti di Hamas in Cisgiordania. Il gruppo era in un palazzo anonimo, ma non abbastanza per il Mossad che prese le coordinate ha utilizzato un drone, il "chirurgo" che messo mano al suo "bisturi" ha scatenato con precisione millimetrica l'inferno al terzo piano dov'era in corso la riunione.

In Israele l'esultanza è stata grande. Il direttore del Mossad, David Barnea ha dichiarato con l'abituale freddo distacco: "ogni madre araba deve sapere che se suo figlio ha preso parte al massacro (del 7 ottobre) ha firmato la propria condanna a morte". La frase non è inedita, ma riprende al rovescio un famoso discorso dello statista Ben Gurion pronunciato nella primavera del 1963: "Sappia ogni mamma ebrea che ha affidato il destino dei suoi figli a comandanti degni di ciò". 

David Barnea lo disse in un'occasione quanto mai significativa: il funerale di Zvi Zamir, il leggendario capo del Mossad fra il 1968 e il 1974, morto a 98 anni. Zvi Zamir era l'uomo che aveva diretto le prime fasi dell'operazione "Collera di Dio", la vendetta di Israele che si dipanò per ben vent'anni alla ricerca e all'uccisione dei responsabili palestinesi della strage degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco nel 1972. Ora gli israeliani dicono apertamente che vogliono fare qualcosa di simile: cercare in tutto il mondo i capi di Hamas ed eliminarli ad uno a uno. I paesi dove sono più probabili gli agguati? Turchia, Libano, Siria, Giordania, Iran, Iraq. Ci sarebbe anche il Qatar, ma sembra che ci siano degli accordi sotterranei per evitare imbarazzanti fatti di sangue nel Paese del Golfo. Comprensibile. Il Qatar serve come luogo neutrale, dove tutto si tiene, rifugio per dirigenti Hamas, ma anche luogo ospitale per le basi USA. 


Non si ferma la mattanza del popolo palestinese

Quanto detto sopra si può considerare la "faccia pulita" di Israele, cioè la sua legittima aspirazione di cancellare dalla faccia della Terra i suoi nemici dopo gli eccidi del 7 ottobre. Nella Striscia di Gaza, invece, si annerisce sempre di più, giorno dopo giorno, la faccia sporca dello Stato di Israele e del suo premier Netanyahu, portati ad una vocazione omicida che finora contabilizza nel lugubre bilancio di morte le cifre di 22.500 palestinesi uccisi e settemila dispersi, per i quali ci sono poche speranze di sopravvivenza. Ad un tempo, Israele non riesce a offrire al mondo una proposta decente per il futuro di Gaza.

Sembra incredibile. Ma non è poi così paradossale, quando la furia cieca ottunde la ragione, che Israele non abbia un progetto per il dopo. Eppure, tra due giorni si è al terzo mese di guerra con le sue infinite tragedie, con lo sfollamento di due milioni di palestinesi inghiottiti nel nulla, la distruzione o almeno il danneggiamento di almeno il 70 per cento delle abitazioni di Gaza, la morte in combattimento di 175 soldati israeliani e quella di 320 palestinesi in Cisgiordania (numeri in continua variazione), le continue tensioni con Hezbollah libanese che hanno provocato un altro centinaio di vite spezzate. Per contro, lo Stato di Israele offre soltanto i mantra del primo ministro Benjamin Netanyahu che ripete fino allo sfinimento le stesse frasi: "la guerra continuerà a lungo", "andremo avanti fino alla distruzione di Hamas", non permetteremo a nessuno di dirci cosa fare".


L'inerzia politica di Netanyhau

In realtà, come tutti capiscono, Benjamin Netanyahu si muove come un sonnambulo, cercando di scacciare i propri incubi, soprattutto quello di passare alla Storia come lo statista che ha portato Israele a un disastro. Pur di evitarlo e di ottenere un difficile riscatto (immeritato), Netanyahu cerca di prolungare il più possibile la guerra in crescendo. Due sono i principali motivi. Uno ragionevole e l'altro no. Il primo è che continuando a combattere in grande stile impiegando forze imponenti, scatenando bombardamenti durissimi, attaccando a "scacchiera", cioè colpendo un settore per volta e poi passando al successivo, si provoca sì un numero spaventoso di morti, ma si logora davvero il nemico. 

Ha spiegato in proposito un generale israeliano: "il punto anche se spesso si sostiene il contrario, non è uccidere i capi principali come Yaya Sinwar e Mohamed Deif, perché tanto altri capi prenderanno il loro posto; la vera posta in gioco per arrivare a una vittoria degna di questo nome è distruggere la maggior parte delle unità di Hamas, in pratica uccidendo così tanti miliziani islamisti da rendere loro impossibile poter cantare vittoria; il problema terribile è che per ottenere un risultato simile bisognerà praticamente distruggere tutta Gaza e uccidere molti civili; per questo attacchiamo una sezione per volta; abbiamo la forza logistica per radere tutta Gaza in un paio di giorni, ma se lo facessimo così bruscamente avremmo addosso tutto il mondo; invece, un pezzetto per giorno, e cercando di far scappare più civili possibile anziché ucciderli, il mondo riesce a sopportare; un pezzo alla volta per mesi e mesi, la cosa risulta tollerabile. Il problema è che la faccenda si sta rivelando di una lunghezza spaventosa perché noi non siamo barbari e fare questo per mesi e mesi è davvero uno strazio infinito".

L'altro obiettivo di Netanyahu non ha nulla di ragionevole, ma è nello spirito del personaggio deciso a decidere anche il futuro dei palestinesi, con buona pace dell'autodeterminazione dei popoli, ma in contrasto con la stessa rivendicazione che anima dal secondo dopoguerra il popolo ebraico. D'altronde in tutto questo gli israeliani stanno combattendo con coraggio e determinazione, come lo sa fare chi sa di lottare per la propria esistenza, ma non sono supportati dai propri politici, privi di idee e visioni pacifiche per il dopo. Non a caso, gli unici a parlare sono estremisti come il ministro Ben Gvir, il politico che vuole distribuire armi fra i coloni israeliani e che ha seriamente proposto di mandare i palestinesi in Congo. Alla stessa stregua dei nazisti che volevano confinare gli ebrei nell'isola del Madagascar.

Non è assolutamente uno scherzo: approfittando dei buoni rapporti diplomatici con il presidente congolese Felix Tshisekedi che ha grande stima dello Stato di Israele, sua la frase "siete una fonte di ispirazione, mi insegnate che cosa può fare un popolo quando ha con sé il favore divino...", Ben Gvir ha proposto di far immigrare la maggior parte dei palestinesi di Gaza in Congo. E si è "spiegato" così, come se si trattasse di un taglio dei capelli: "Il 70 per cento degli israeliani è per un'emigrazione volontaria dei gazawi perché non è più accettabile che due milioni di persone si sveglino ogni mattina a cinque minuti da casa nostra sognando di distruggerci, mentre sarebbe ben diverso se nella Striscia rimanessero solo 100-200 mila palestinesi".

Perfino Netanyahu ha liquidato la proposta con una scrollata di spalle e un solo commento: "assurdità". Però, al di là delle battute, il primo ministro israeliano e i suoi colleghi dell'esecutivo vivono una terribile inerzia politica, mentre la guerra infuria senza tregua con il rischio di risvegliare il fondamentalismo islamico. E questo porterebbe a infiniti nuovi lutti. 


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