El Alamein, 23 ottobre 1942 L'inizio della battaglia
- Vice
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di Vice

La notte del 23 verso le 22, per la lunghezza di una decina di chilometri, mano a mano, da sinistra a destra, come se un interruttore trasmettesse a intermittenza l'energia, scaturirono un migliaio di lampi. Qualche secondo ancora e i lampi avevano già presentato le loro cannonate. Con il diario di un combattente dell'epoca [1], si apre il ricordo di El Alamein, Egitto 1942, punto di snodo delle vicende della II guerra mondiale insieme con l'assedio di Stalingrado: italiani e tedeschi contro l'VIII armata britannica, Rommel contro Montgomery, nel deserto egiziano.
La seconda battaglia di El Alamein si esaurì a cavallo tra il 5 e il 6 novembre, giorno della ritirata delle truppe dell'Asse verso ovest, verso la Libia e, infine, in Tunisia. L'ultimo arretramento. Nel maggio del 1943, stretto nella morsa angloamericana, ciò che rimaneva di un esercito che soltanto un anno prima accarezzava l'idea di sfilare vittorioso ad Alessandria d'Egitto, si arrese. Due mesi dopo, l'invasione della Sicilia anticipò di qualche settimana il crollo del regime fascista.

In quel 23 ottobre 1942, Bernard Law Montgomery, comandante britannico, ufficiale severo e teatralmente ambizioso, inviò al Primo ministro dell'Impero britannico Winston Churchill e al suo superiore generale Alexander un messaggio cifrato di appena tre lettere, seguito da un punto esclamativo: Zip! Dietro la parola d'ordine, l'inizio delle operazione immediatamente tradotto dai principali collaboratori di Monty, i generali Leese e Horrocks, che diedero l'ordine d'attacco al XXX e XIII corpo d'armata.
Le forze in campo erano squilibrate con i britannici il doppio dei loro avversari. In tutto. Carri armati e cannoni. Quando gli artiglieri di sua maestà Giorgio VI cominciarono a dare fuoco alle polveri, in contemporanea spararono mille cannoni e 220 mila uomini si mossero all'attacco. La fanteria britannica avanzava di cento metri ogni tre minuti verso le posizioni nemiche con la baionette in mano.[2] Anche se in un quadro di informazioni confuso, il comando italo-tedesco avvertì che non si trattava di un'azione di disturbo. L'VIII armata aveva deciso di spazzare il fronte avversario.
Scrive Churchill nelle sue memorie: "La battaglia di El Alamein ebbe caratteristiche diverse da tutte le precedenti battaglie svoltesi nel deserto.[3] Così diversa, da costringere i tedeschi a rivedere i loro giudizi sulla combattività delle truppe italiane, se non proprio di chi le comandava. Per la prima linea, che resse all'urto britannico, fu una carneficina. I para della Divisione Folgore, la meglio gioventù italiana mandata a morire da Mussolini, scomparve per metà dei suoi effettivi. Ma il sacrificio mise in forse, per qualche giorno, la riuscita del piano di Montgomery.

Ma il 2 novembre, pur con Rommel nuovamente al comando, rientrato dalla convalescenza in Germania, dinanzi al rinnovato attacco britannico, nome in codice Superchargefro, 800 carri e 360 cannoni in azioni simultanea, gli scricchiolii della difesa italo-tedesca divennero i primi sintomi di un crollo o quasi. Le divisioni italiane, Ariete, Littorio, Trieste, Pavia, Bologna, divennero un simulacro. Dei 5mila giovani della Folgore, soltanto 300 erano rimasti in piedi, trentadue ufficiali e 272 soldati.
Hitler telegrafò a Rommel il suo immancabile e assurdo ordine: O vittoria o morte. Fu morte. Fisica, ma non del tutto dello spirito. Se ne accorse anche Monty, che galvanizzato dalla presunta debolezza nemica, spinse ancora in avanti le sue divisione corazzate il 4 novembre per travolgere i residui dell'Africa Korps, riluttante ad arrendersi. A resistere, in una battaglia definitivamente perduta, furono anche i carristi e i bersaglieri dell'Ariete. Il 6 novembre si arrese la Folgore, che fino all'ultimo aveva messo sotto scacco i nemici. Il suo comandante, generale Frattini fu ricevuto dal suo omologo Hugues.

El Alamein conobbe anche le capacità di disimpegno del feldmaresciallo Rommel, che portò in salvo quasi un terzo dell'Armata. Ma a volte a scapito degli italiani, lasciati appiedati in alcune circostanze, vittime della prepotenza dell'alleato. Il 24 novembre, italiani e tedeschi si attestarono a El Agheila. Il 23 gennaio 1943, cadeva Tripoli bel suol d'amore e il tricolore veniva ammainato e cessava dalle torri il rombo del cannon, della propaganda fascista. A febbraio, l'Asse dava l'addio alla quarta sponda italica e ripiegava nei confini tunisini. Il principio dell'irreversibile fine di una guerra d'aggressione.
Da quell'eseperienza in Nordafrica, Mario Tobino, ufficiale medico in Libia con il V Alpini, chiuderà il suo Il deserto della Libia con queste memorabili parole:
Eppure ci furono anche in Libia gli eroi, candidi, soldati, umani. Chi non abbandonò l'amico, chi morì per nulla, sapendolo. Puro gesto gesto senza ideale, se non quello umano, gentile, nello specchio del destino che lo guardava. Senza fiamma alcuni furono eroi. Si vide anche cosa poterva dare un uomo senza patria, vilipeso, afflitto per venti anni da una bestiale tirannia, eppure rimanere ancora gentile.[4]
Note
[1] Gabriele De Rosa, La passione di El Alamein, Taccuino di guerra, Donzelli Editore, 2002
[2] Arrigo Petacco, L'Armata nel deserto, il segreto di El Alamein, Mondadori, 2001
[3] Winston Churchill, La Seconda guerra mondiale, Mondadori, 2022
[4] Mario Tobino, Il deserto della Libia, Einaudi Editore, 1974













































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