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Carlo Alberto dalla Chiesa, a 43 anni dal suo sacrificio

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Venerdì, 3 settembre 1982, centro di Palermo. Raffiche di kalashnikov scuotono l'abituale rumore del traffico in via Isodoro Carini, a pochi passi da viale della Libertà e da piazza Politeama, luogo simbolo del capoluogo siciliano. Poi un cupo silenzio, non così estraneo alla vita dei palermitani, precede l'interrogativo su chi è stato ammazzato. È l'unico. Di mandanti e di esecutori, anche se non hanno nome e volto, si ha sempre contezza: sono mafiosi. Che anche questa volta hanno alzato il tiro e si sono mostrati avidi di sangue, eccellente. I morti sono il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro, centrati nella loro A112 e Domenico Russo, l'agente di scorta alla guida dell'auto della Prefettura. Fine di una storia personale, inizio di un'altra, che da 43 anni è entrata di diritto nel Pantheon dei misteri d'Italia, anche se i processi a Cosa Nostra hanno chiarito le responsabilità del gruppo dei corleonesi comandato dai capi dei capi, Totò Riina.

Palermo è scossa. Sul luogo dell'agguato c'è chi lascia un cartello con la scritta "Qui è morta la speranza dei palermitani onesti", espressione di un sentimento diffuso, mentre nel carcere dell'Ucciardone i criminali festeggiano e brindano alla strage.

Una speranza durata 100 giorni. Il lasso di tempo trascorso dalla nomina a prefetto di Palermo del generale della Benemerita Carlo Alberto dalla Chiesa, il servitore dello Stato che nell'immaginario collettivo più di altri aveva piegato il terrorismo delle Brigate rosse. A cavallo tra la primavera e l'estate del 1982, dopo l'omicidio del segretario regionale e parlamentare del Pci Pio La Torre, e del suo uomo di fiducia Rosario Di Salvo, lo Stato gli aveva chiesto un impegno supplementare: combattere la mafia. Ma non più in divisa, senza più gli amati alamari e i suoi carabinieri, com'era accaduto negli anni Cinquanta e Sessanta. Solo, ma con poteri speciali, gli aveva assicurato quello stesso Stato, creandogli attorno un impotente alone di leggenda che riportava indietro le lancette dell'orologio agli anni del prefetto di ferro di memoria fascista Cesare Mori.

Ma nel tempo, più che muoversi virtualmente all'indietro, le lancette erano rimaste ferme, cristallizzando una situazione di stallo nella lotta alla mafia, immediatamente percepita dalla Cupola che vi aveva letto e colto la sua grande opportunità di passare al contrattacco, alla sua maniera, con la ferocia degli omicidi, imponendo un'atavica mentalità, complice una classe politica connivente e subalterna al suo potere.

Non sarebbe stata l'ultima volta per i cittadini onesti assistere al sacrificio di un uomo delle istituzioni. Con l'aggravante che il sacrificio di dalla Chiesa, come prima e dopo quelli di Falcone e Borsellino, e delle decine magistrati ed esponenti delle forze dell'ordine, di imprenditori, di giornalisti, e di persone comuni caduti sotto il piombo mafioso, ancora non hanno diradato la nebbia della cultura dell'illegalità che avvolge e ammorba il nostro Paese.



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