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Capaci, 23 maggio 1992, il sacrificio di Giovanni Falcone

Aggiornamento: 23 mag 2023

di Vice

Oggi è il giorno della legalità. Dal Giornale di Sicilia: Alle 17,58, l’ora della strage in autostrada, un trombettiere della polizia suonerà il silenzio davanti all'Albero Falcone. Poco prima, alle 17,43 (l'orario di atterraggio dell’aereo su cui viaggiava Falcone), nella sala imbarchi dell’aeroporto a Punta Raisi, sarà eseguita la Sonata n.1 in fa minore per clarinetto e pianoforte di Brahms.[1]

Trentun anni fa, il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesco Morvillo, e gli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, furono massacrati dalla violenza criminale di Cosa nostra guidata dai corleonesi di Totò Riina. Alle 17,58 di quel 23 maggio del 1992, la pietà verso quei corpi dilaniati, disfatti, agonizzanti, autorizzò a girare lo sguardo. Ma fu soltanto l'unico istante di un gesto fisico, ma non morale, che non implicava l'abbandono della lotta alle mafie, dinanzi all'orrore provocato da criminali che avevano deciso di eliminare il numero uno in cima all'agenda dei loro nemici.

Anzi. L'insegnamento del dovere di combattere il cancro mafioso, prima ancora che dal giudice Falcone, era arrivato nei decenni precedenti da tutti quei servitori dello Stato, sindacalisti e giornalisti, che avevano sacrificato le proprie vite per contrastare il fenomeno mafioso e da tutti quei bambini e donne che il sistema mafioso avevano eliminato per vendetta.

Il 19 luglio, 57 giorni dopo, in via D'Amelio a Palermo, l'attentato mortale al giudice Paolo Borsellino, amico fraterno di Giovanni Falcone di cui aveva raccolto anche l'eredità morale e non soltanto investigativa, e agli uomini dediti alla sua protezione, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, chiarì la dimensione dell'arroganza e dell'impudenza mafiosa di autodefinirsi con quei delitti un vero e proprio Anti-Stato.

Un ruolo che dopo la stagione del tritolo e delle stragi nel 1993, sarebbe stato legittimato dalla trattativa Stato-Mafia. E ciò, al di là delle recenti sentenze giudiziarie che hanno assolto gli imputati, ma non cancellato gli eventi e i comportamenti di cui essi si sono resi protagonisti. L'arresto di Matteo Messina Denaro ha disvelato poi il livello di complicità di cui il potente capomafia ha goduto nella sua dorata latitanza, in parte anche frutto delle coperture che di riflesso quegli impuri incontri tra pezzi dello Stato e vertici della criminalità organizzata gli hanno garantito (indirettamente) negli anni.

Di qui, Cupole di protezione diffuse su una persona che assicurava rendite di posizione, e non soltanto al suo ambiente familiare, per impedire "sguardi" e dissuadere "curiosità" pericolose alla sua latitanza. Di qui, l'idea sottostante che l'impunità di Matteo Messina Denaro potesse fondere due elementi, certezza e leggenda. La certezza finalizzata a gestire lucrosi commerci di qualunque natura, la leggenda a eternizzare l'astrazione con cui la mafia a impone la propria legge sulla società senza la necessità di ricorrere alla violenza.

Una mentalità incline alla collusione, all'indifferenza, all'omertà si costruisce e si rafforza anche offuscando i doveri dello Stato. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino lo avevano compreso. E letale è stata la loro scelta civica e ideale di non arrendersi ad accomodamenti e derive. Ricordiamolo per noi e per le nuove generazioni.




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