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A proposito di Resistenza e "novità" del ministro Valditara

di Giuseppe Busso*

Dunque, il ministro della Pubblica istruzione e del merito Giuseppe Valditara in una delle sue ultime sortite ha affermato che l’ANPI, l'Associazione nazionale partigiani d'Italia, ente morale dal 5 aprile 1945, non ha più il monopolio degli interventi nella scuola sulla Resistenza. La cosa ha ovviamente creato un'ondata di indignazione in molti ambienti politici ed associativi nel fondato timore che sul tema si avviasse una operazione revisionista al pari di altre cui abbiamo assistito in questi anni. Poi, però, se si guarda con occhio neutro alla realtà, al presente, è giocoforza domandarsi che cosa è lecito attendersi di diverso da un governo di destra-centro, nel quale una forza politica (Fratelli d'Italia) fino a non molto tempo fa, e in parte ancora oggi, non ha mai fatto mistero di simpatie verso l’ideologia fascista. L’esatto contrario cioè di quanto propugnato dall’ANPI e, elemento non secondario, ma fondante, dai nostri principi costituzionali, nati appunto dalla Resistenza.

Ma oggi a detenere il potere e a rappresentare una discreta fetta del consenso nel Paese sono gli eredi del Movimento sociale italiano, partito nato da esponenti di rilievo della Repubblica sociale Italiana di Mussolini, rifondato nel 1995 con la svolta al congresso di Fiuggi dall'allora numero uno di Gianfranco Fini nella direzione di una destra democratica ed europeista che prese forma con Alleanza Nazionale. Di lì, altre vicissitudini portarono all'attuale partito di Fratelli d'Italia in cui non sono mancati e non mancano rigurgiti nostalgici, forme di un sempre meno velato autoritarismo con cui avviare l'intramontabile campagna di revisionismo storico a senso unico. Il che riporta all'annosa domanda di come sia ancora possibile che una democrazia adulta, ispirata da una classe di valori nuovi e antitetici a quelli del ventennio fascista, subisca il fascino di teorie che hanno avvelenato (leggi razziali del 1938) e portato al disastro morale ed economico (invasione dell'Etiopia con i gas sull'esercito avversario e l'occupazione dell'Albania, partecipazione al colpo di stato militare contro la Repubblica spagnola guidato da Francisco Franco, la Seconda guerra mondiale a fianco di Hitler) il nostro Paese.

Mi viene allora di ripercorrere, per quelli che ho vissuto, questi settant’anni. Sono nato alcuni anni dopo la fine della guerra in una famiglia di ferrovieri. Sentivo parlare della guerra in termini angosciati, una esperienza terribile sulla quale si tornava di rado con noi ragazzi. Mio padre aveva fatto la guerra in Africa e in Jugoslavia, ma non ne parlava mai. Ho capito molti anni dopo, leggendo libri ed inchieste, delle atrocità commesse in quei luoghi, anche dalle forze d'occupazione italiane. Doveva essere stata una esperienza traumatizzante. Qualche volta sentivo parlare anche dei partigiani, delle loro imprese.

Abitavamo in provincia di Cuneo, la terra di Duccio Galimberti e di Nuto Revelli, ma i ricordi che mi venivano trasmessi si riferivano principalmente al terrore che dilagava nelle campagne per la paura che le operazioni partigiane potessero generare rappresaglia da parte di tedeschi e repubblichini. E in quei territori, quasi metà della popolazione votò Monarchia, nonostante la complicità con Mussolini e la responsabilità diretta nell'ingresso in guerra, al Referendum istituzionale del 2 giugno 1946. Non ho mai saputo cosa avessero votato i miei. Ma nel portafoglio di mio padre scoprii un giorno la tessera della Cgil. In questo quadro confuso, nel corso degli studi iniziai a ricomporre il quadro di cosa era successo, il valore della Resistenza e della Repubblica nata da questa esperienza.

E fu Repubblica. Una Repubblica nella quale però gran parte dell’apparato statale presente nel ventennio rimase al proprio posto, facendo anche carriere sfolgoranti, come hanno documentato gli studi, anche recenti, apparsi. Per qualche decennio nelle scuole non si parlò della Seconda Guerra Mondiale, ci si fermava al Risorgimento con modesti o fugaci accenni alla Grande Guerra per il ritorno di Trento e di Trieste italiane. Ricordo di aver studiato infinite volte Annibale e Scipione l'Africano, mai i Partigiani e la Resistenza. Era passato troppo poco tempo, si diceva, e le riflessioni rischiavano di essere "di parte". Di quale parte, rimaneva un grosso punto interrogativo, dal momento che erano ancora evidenti le responsabilità del fascismo, osservando per esempio le case bombardate nelle grandi città, mentre lapidi e cippi riportavano alla memoria il sacrificio dei patrioti resistenti, quasi tutti giovani e giovanissimi.

Poi se ne cominciò a parlare in maniera distinti e più diffusa ed uno dei protagonisti di questa narrazione fu certamente l’Anpi. Era egemonizzata dai comunisti, lo scrivo e lo dico per andare al sodo e alle radici delle polemiche di ieri e di oggi, questa Associazione? Non credo. Nel comune dove abito ora, Chivasso, l’Anpi fu costituita nel 1945 da liberali, socialisti e comunisti, provenivano tutti dai CLN locali nei quali erano confluite persone di diverso orientamento politico che seguirono poi strade diverse, spesso contrapposte. Tutti antifascisti dichiarati. Nelle scuole intervennero rappresentanti inviati dall’Anpi, ma anche testimoni di altre realtà ed esperienze. Certo l’Anpi era la componente più organizzata e strutturata, ma mai egemone per diritto acquisito.

Il Ministro vuole che ci siano altre organizzazioni ad intervenire nelle scuole? Non credo che ci siano problemi. Anzi, è la conferma del modus operandi che l’Anpi stesso promuove da anni. Il problema se mai è oggi la progressiva sottovalutazione dell’operato della Resistenza a favore di una rivalutazione dei valori del fascismo, una dittatura che secondo il solito e provinciale adagio "ha fatto anche cose buone". E questo chiama in causa tutti noi che, in fondo, ci siamo cullati per troppo tempo nella convinzione di una vulgata acquisita, delegando ai volonterosi "missionari" dell’Anpi il compito della testimonianza, soprattutto in un tempo nel quale i testimoni di quell’epopea andavano scomparendo. Oggi a parlare di Resistenza sono quelli che non l’hanno fatta, che sono nati dopo. Sono le nuove “prime linee” che parlano attingendo a quello che hanno sentito dire o letto, un compito non facile perché soggetto più di prima alle interpretazioni.

Un compito impegnativo che deve coinvolgerci in tutte le micro comunità nelle quali viviamo; dobbiamo trovare i linguaggi e le forme adatte alla società di oggi, specialmente a quella delle giovani generazioni, abituate a comunicare con codici nuovi non sempre maneggiati dalle generazioni più anziane.

L’indignazione per le parole del Ministro “ci sta”, come si dice oggi, ma per essere efficace deve essere seguita dall’iniziativa di ciascuno per costruire una narrazione nuova di quei fatti che hanno creato la nostra Repubblica, in un contesto, non solo italiano, nel quale i metodi dell’autoritarismo, seguiti da una radicalizzazione dello scontro ideologico, religioso e sociale, stanno pervadendo sempre più massicciamente la società.


*Presidente Università della Terza Età del Chivassese

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