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Un libro per voi. "A Sarajevo il 28 giugno"

a cura di Marco Travaglini


Domenica 28 giugno 1914 a Sarajevo avvenne il fatto che divise in due la storia del Ventesimo secolo: l’at­tentato in cui furono uccisi l’arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo-Este e sua moglie, Sofia Chotek von Chotkowa. Da quel giorno nulla fu come prima e, scardinata in un soffio la  belle époque, dilapidandone il patrimonio culturale e artistico che aveva fatto grande l’Europa, iniziò di fatto il Novecento, il secolo breve e del sangue.

Se si guardano da vicino quelle ore attraversate da un invisibile con­fine appaiono come un groviglio di piccoli fatti, incidenti, fuggevoli sensazioni, incontri determinati dal caso. Gilberto Forti, giornalista e traduttore dall’inglese, tedesco e svedese oltre che di grandi autori della tradizione mitteleuropea, nel suo stupendo A Sarajevo il 28 giugno, edito quarant’anni fa da Adelphi, seppe guardare dentro quella giornata, estraendone undici “storie in versi”, poesie narrative in endecasillabi di straordinaria sobrietà. A parlare erano, di volta in volta, personaggi immaginari che raccontavano la real­tà di quella giornata, vero spartiacque della storia moderna. Leggendole ci vengono incontro voci e figure diverse, dal­l’Im­pe­ratore Francesco Giuseppe che “si dà pensiero per i funerali, come se tutto il resto non contasse”, all’ufficiale Max von Lenbach, che si sottrae ai creditori fuggendo a Montecarlo con una nobildonna, dai dignitari di Corte a Gavrilo Princìp, l’attentatore, dalle memorie di una vecchia duchessa a quelle di un ingegnere ungherese.

Gesti, episodi e parole si dispongono come d’incanto attorno a un fatto centrale e, per certi versi, decisivo: l’uniforme di Francesco Ferdinando che ancora oggi si può ammirare, conservata con le macchie di sangue, al Museo di storia militare a Vienna. Una catena infinita dei casi, di volontà inconsce, di consapevoli disegni portarono a quei colpi di pistola quasi fossero attratti da una calamita, cambiando il corso della storia, all’incrocio del ponte Latino di Sarajevo.

L’unica figura che nel libro non parla è la vittima principale, Franz Ferdinand, ma non occorre che lo faccia: ci sono gli altri a parlare di lui. E da quel sovrapporsi di voci Gilberto Forti riuscì a evocare con magistrale nettezza la sua fisionomia: l’Arciduca cacciatore seriale (più di trecentomila animali caddero davanti ai suoi colpi), appassionato di fio­ri (stupendi i suoi roseti a Konopischt), erede senza poteri costretto dall’etichetta a un matrimonio morganatico (Sofia era di rango sociale inferiore e questo impediva il passaggio alla moglie dei titoli e dei privilegi del marito), uomo con difetti e pregi. Francesco Ferdinando d'Asburgo-Este finì dissanguato sotto i colpi del giovane Gavrilo anche perché nessuno seppe aprirgli subito l’uni­forme che gli era stata cucita addosso a filo doppio per celare l’in­ci­piente obesità. Un eccesso di vanità e di etichetta che gli fu fatale. Ripercorrendo e scandagliando gli eventi della giornata che fece da detonatore alla Prima guerra mondiale, Gilberto Forti utilizzò la figura dell’arciduca erede al trono come metafora della complessità e delle fragilità dell’Impero alla vigilia del conflitto che lo portò alla dissoluzione. Ci fu che la definì, con un certo acume, una sorta di Spoon River in terra balcanica, colpendo nel segno. Nelle parole che Forti fa pronunciare al  sergente Koppenstatter, si incontra una delle metafore più intense  del libro: “Francesco Ferdinando se ne va, e con lui se ne va la disciplina, la stessa disciplina che l’ha ucciso, la disciplina delle cuciture che tenevano assieme il vecchio impero”.

Sintesi mirabile di una storia da rileggere come un romanzo.



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