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Un altro "grande vecchio", secondo tradizione, per salvare la nazionale di calcio?

di Michele Ruggiero


L'Italia, quando si tratta di calcio in crisi, non riesce per nulla a stupire. L'esonero di Luciano Spalletti è un dejà vu, prevedibile, quanto scontato nei nomi che circolano per la sua sostituzione. Su tutti quello di Claudio Ranieri, persona perbene, tecnico di spessore e uomo di estremo buon senso. Che di anni ne ha 72 e che per immagine, con le dovute proporzioni rispetto ai tempi, ricorda l'avvento di Ferruccio Valcareggi, "zio Uccio", quest'ultimo al timone della nazionale azzurra in coabitazione con HH, al secolo Helenio Herrera, dopo il disastro alla Coppa Rimet del 1966 e, ne parleremo successivamente, di Fulvio Bernardini, classe 1906, nel 1974. Valcareggi, classe 1919, non aveva che 47 anni quando prese posto sulla panchina azzurra, ma si portava dietro un'immagine decisamente più anziana della sua età che affidare a lui la nazionale sembrò una scelta idealmente rassicurante, il classico porto sicuro dopo la tempesta.


"Vergogna": la sconfitta contro la Corea del Nord

E che tempesta. Era la sera del 19 luglio 1966, quando in quel di Middlesbrough, cittadina inglese del nord-est, si consumò la "vergogna" del calcio italiano, superato dalla nazionale nordcoreana, che gli osservatori italiani avevano liquidato come "una squadra di Ridolini". Invece, il goal di uno sconosciuto caporale dell'esercito, Pak Doo-Ik, che una leggenda metropolitana promosse prima dentista, per poi declassarlo odontotecnico, mise fine ai sogni di gloria di una nazionale partita con grandi speranze dall'Italia, che in quell'estate di 59 anni fa aveva nelle stanze di Palazzo Chigi uno dei suoi migliori statisti, Aldo Moro alla guida di un quadripartito Dc, Psi, Pri e Psdi. Sigle di partito oramai sepolte dalla polvere del tempo nel lessico della politica.

Quell'Italia, interna a un centro sinistra non ancora riformista, tuttavia era consapevole di essere a fine corsa del boom economico, quanto consapevole dell'ineludibilità dello svecchiamento della società. La rivoluzione giovanile e studentesca era alle porte, alla stessa stregua di quella nelle fabbriche che avrebbe innescato un clima di grande partecipazione per la rivendicazione di nuovi diritti sociali. Un clima di cambiamento da cui non cui il quel 1966 non sarebbe stata esclusa la Rai con i suoi programmi radiofonici e televisivi, dove un giovane catanese cominciava a diventare noto e simpatico per le sue giacche sgargianti e la sua verve: Pippo Baudo, che ieri l'altro, 7 giugno, ha compiuto 89 anni. Sua una delle tante rivoluzione del piccolo schermo con quel delizioso quiz musicale Settevoci, con cui dava la misura del suo irreversibile e personalissimo stile. Sempre in quel 1966, non ultimo, scoppiava il caso di Don Lorenzo Milani, il parroco di Barbiana accusato di antimilitarismo per le sue prese di posizioni contro la guerra in Vietnam, che in fondo riprendevano dal basso gli appelli alla pace di Papa Paolo VI.


Il cambiamento firmato da Artemio Franchi

Ma l'estate 1966 fu soprattutto un elettrochoc per i calciofili intemerati, scossi dal fallimento della nazionale di calcio che fu accolta al suo rientro in Italia, all'aeroporto Cristoforo Colombo, da un nutrito lancio di pomodori e uova marce. Di riflesso, non sorprese il licenziamento con annessa squalifica (demenziale) dell'allora ct. Edmondo "Mondino" Fabbri, detto pure "Topolino", capro espiatorio di un'avventura finita nel precipizio non del tutto a causa sua. Non a caso, la delusione si allargò anche alle sfere dirigenziali della Federcalcio con il presidente Giuseppe Pasquale che rassegnò le dimissioni con un anno d'anticipo. Guardata con la lente della storia, fu una provvida decisione, perché spianò l'arrivo ad Artemio Franchi, massone, senese di nascita, fiorentino d'adozione, questo autentico "Granduca di Toscana" del calcio rivoluzionò con alcune mosse ben azzeccate l'intero movimento calcistico. Cominciò dal rilancio del Centro tecnico di Coverciano a un nuovo corso nel rapporto con le società, per passare all'inclusione di un grande manager come Italo Allodi nel cerchio magico azzurro e dare carta bianca nella gestione della nazionale al responsabile del settore tecnico, il dirigente industriale torinese Walter Mandelli, fino all'ingresso con maggiore peso politico dell'Italia nei santuari della Uefa, di cui divenne presidente nel 1973. I risultati si videro nel giro di due anni. Forse troppo rapidamente, per denigratori e maligni, che a posteriori gli contesteranno la liceità dei suoi antidoti, tralasciando che il calcio italiano dell'epoca a livello di club si era affermato sia livello europeo che intercontinentale con Inter e Milan. Nel 1968 l'Italia vinse gli Europei ospitati nel nostro Paese e nel 1970 centrò la finale della Coppa Rimet perduta con il Brasile, salvo rimpiombare nel purgatorio ai mondiali di Germania nel 1974, eliminati ai gironi da Polonia e Argentina, un fallimento che decretò la fine dell'era Valcareggi. E anche in quella circostanza, la Federcalcio di Artemio Franchi si affidò ad un "grande saggio", al dottore in economia Fulvio Bernardini, classe 1906 (68 anni nel 1974), artefice degli scudetti di Fiorentina (1957) e Bologna (1964), che nei suoi anni di splendore da centromediano della Lazio era stato protestato dalla nazionale del commissario tecnico Vittorio Pozzo, campione del mondo nel 1934 e nel 1938. A Bernardini seguì il "vecio" Enzo Bearzot e con lui l'impresa al Mundial spagnolo del 1982.


Il fallimento ai mondiali in Cile

Esattamente a vent'anni di distanza - facciamo un salto all'indietro nel tempo - dall'altro e bruciante smacco, da cui si è partiti mentalmente per risalire alla situazione attuale, ma il cui racconto è rimasto ancora nella tastiera del computer: i mondiali in Cile del 1962. Fu un disastro, nonostante le premesse delle qualificazioni, su tutte la dilagante vittoria a Torino per 6 a 0 su Israele, con quattro reti dell'oriundo Omar Sivori. Ma la spedizione, nata sotto i migliori auspici calcistici, deragliò in parte per motivi extracalcistici, propiziata da alcuni articoli degli inviati sulla situazione politica ed economica del Cile, in parte per una direzione arbitrale faziosa. Quella nazionale era forte, per alcuni versi fortissima e talentuosa, ma non abbastanza per reggere alla forza della giacchetta nera inglese Ken Aston, che nella decisiva partita contro i padroni di casa fischiò a senso unico, non accontentandosi di favorire i nostri avversari, ma arrivando a provocare fino all'espulsione i nostri calciatori (Giorgio Ferrini e Mario David) con le sue decisioni.

Gli azzurri lasciarono sul terreno dello stadio di Santiago del Cile rabbia e amarezza, insieme alla sconfitta per due a zero, il secondo goal fu firmato da un cileno ingaggiato nello stesso anno dalla Sampdoria, ma ricordato più per i suoi campionati nel Modena, Jorge Toro. Gli oriundi, invece, i naturalizzati italiani per ius sanguinis, lasciarono per sempre la nazionale su imposizione della Federcalcio che da quel momento sbarrò loro la maglia azzurra consegnata soltanto agli italiani di nascita. Ciò che dovrebbero fare oggi i nostri club, anche se non in forma assoluta, con gli stranieri: ridurne il volume nel nostro campionato e investire nei vivai per rivitalizzare il nostro gioco in crisi d'astinenza di veri campioni e talenti. Che non potranno mai fiorire in panchina o nelle retrovie, costruirsi una personalità vincente, se costretti a fare posto a chi proviene dall'estero, spesso mediocre o comunque non a loro superiore. Il sistema calcio va riformato. Pena la decadenza della nostra nazionale, che rischia questa volta di non essere salvata dall'ennesimo "grande vecchio" chiamato al suo capezzale.

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