Torino e politiche abitative: serve un cambio di passo
- Igor Piotto
- 23 lug
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Aggiornamento: 23 lug
di Igor Piotto

Il prossimo 28 luglio si riaprirà il confronto tra sindacati e l'Assessorato alle politiche sociali, con delega alle politiche abitative. L'incontro non si preannuncia né facile, né semplice, dopo l'irrigidimento manifestato dall'istituzione comunale sulla possibilità di dare una svolta operativa alla gestione e all'indirizzo assunto sinora da “Lo.Ca.Re”, l'agenzia sociale istituita nel 2000 dal Comune di Torino per favorire domanda e offerta nel mercato privato della locazione a titolo completamente gratuito e intervenendo con incentivi una tantum e a fondo perduto.
La posta in gioco del confronto non riguarda l'introduzione di alcune modifiche, quanto invece gli indirizzi operativi e l'impostazione che li presiede, secondo l'interpretazione che ne offre Igor Piotto, della segreteria della Camera del Lavoro di Torino, autore dell'articolo.
Possiamo discutere e disquisire se le politiche abitative avviate dal Comune di Torino siano efficaci e sicuramente lo sono in base al paradigma, all'approccio di riferimento. E' il contesto sociale che mette in discussione le pratiche e la prospettiva sinora perseguite. Partiamo dalle parole. Spesso si utilizza il termine “emergenza abitativa”, lasciando intendere bisogni sociali che maturano in condizioni di forte deprivazione. La prospettiva sinora perseguita fa riferimento ad un modello di intervento strutturato per “gradini (staircase approach), che procede in base alla gravità della sofferenza abitativa, fornendo soluzioni temporanee, anche in collaborazione con soggetti sociali che operano nell'ambito della marginalità sociale, in attesa di una sistemazione più stabile.
In questa prospettiva la politica per la casa è strettamente connessa ad una visione socio-assistenziale che guarda ad una popolazione deprivata, esposta a fenomeni di esclusione, quale nucleo sociale di riferimento. Secondo questa visione esclusione e interventi abitativi si intrecciano in modo organico. I cambiamenti intervenuti nella struttura sociale, a partire dalla distribuzione diseguale dei redditi da lavoro, costringono ad un mutamento dell'approccio sul tema della casa. Alcuni dati possono fornire il supporto empirico circa la necessità del passaggio dall'emergenza alla “povertà abitativa”.
Su 959mila occupati nell'area torinese, il 70% opera nei settori dei servizi, il 23% nell'industria, il 5,6 nelle costruzioni (Inps, 2025); nel 2024 il 75% dei nuovi occupati ha contratti precari (le donne salgono al 78%). Discontinuità occupazionale e una elevata densità di occupati nei settori dove maggiore è la compressione salariale alimentano un blocco sociale economicamente debole che risente di diversi fattori di deprivazione, tra questi la condizione abitativa. Una popolazione solo parzialmente intercettata dai circuiti istituzionali. Nel 2024 le domande per una casa popolare sono state 17.040; a queste occorre aggiungere una quota del lavoro povero che non utilizza tali canali di accesso per una abitazione, che proviene solo in parte da un retroterra sociale disagiato, ma guarda alla “casa popolare” come ad uno stigma che sancisce una condizione di impoverimento dalla quale intende affrancarsi.
In questo scenario l'approccio “a gradini” risulta totalmente inadeguato. Esiste una domanda differenziata che proviene da soggetti sociali che, pur nel rischio comune di povertà abitativa, presentano profili sociali ed occupazionali distinti, non riconducibili ad una soluzione prevalente.
Questo approccio, che potremmo definire integrato, è ben sintetizzato nell'ultimo Rapporto Caritas (2025). Accanto al ruolo dell'edilizia residenziale pubblica (sempre più terreno di scorribande di una destra spregiudicata nell'utilizzo strumentale dell'impoverimento abitativo finalizzato ad alimentare una competizione schiacciata sui soggetti più fragili della stratificazione sociale) e all'intervento socio-assistenziale, cresce in maniera esponenziale la condizione di quanti denunciano e lamentano l'insostenibilità economica del mantenimento di una abitazione in affitto (sono circa il 68% del campione esaminato) secondo i tradizionali criteri di accesso al mercato. Non va dimenticato il sempre maggiore isolamento abitativo della popolazione anziana e la presenza di oltre 46.000 studenti universitari fuorisede sottoposti ad una grave ed inaccettabile speculazione economica nel mantenimento di un “posto letto”. Una sorta di selezione di classe indiretta nell'esercizio del diritto allo studio.
Da diversi mesi Alleanza per la casa (composta da Cgil, Cisl e Uil, rispettivi sindacati degli inquilini, Pastorale sociale e del lavoro e Cicsene) ha presentato al Comune di Torino, nel quadro di un accordo firmato nell'ottobre del 2023, alcune proposte di riforma strutturale dell'Agenzia “Lo.Ca.Re”, a fronte della inadeguatezza dei risultati conseguiti dalla medesima: nel 2024 i contratti di locazione sottoscritti con l'intermediazione dell'agenzia sono stati 250 (Osservatorio sulla condizione abitativa, Rapporto 2025). Con una approssimazione per eccesso, se sommiamo le domande di casa popolare e la popolazione in sofferenza abitativa (Indagine Istat 2025, su indici di vulnerabilità sociale nelle aree sub-comunali della Città di Torino), l'agenzia di Lo.Ca.Re fornisce risposte a meno dell'1% della potenziale domanda.
Diciamo potenziale, perché i bisogni abitativi solo in parte seguono un percorso istituzionale, in larga parte rimane una domanda inespressa che segue percorsi individuali (reti amicali, supporti familiari). La resistenza dell'Assessorato alle politiche sociali ad una trasformazione dell'Agenzia, nonostante la spinta di una delibera consigliare, impedisce di guardare ad un approccio integrato come parte di una politica pubblica sull'abitare. Alcuni punti possono aiutare a focalizzare la prospettiva proposta:
1) Occorre raggiungere l'obiettivo di almeno 1000 contratti di locazione annui;
2) è necessario integrare il ruolo del pubblico con soggetti che hanno maturato nel campo associativo competenze di accompagnamento abitativo per i soggetti più fragili;
3) occorre aumentare la disponibilità di immobili da destinare agli affitti attraverso una architettura di incentivi/sanzioni che coinvolga nella definizione degli indirizzi anche i piccoli proprietari al fine di determinare un terreno di collaborazione (grazie al ruolo “politico” delle istituzioni) che fornisca garanzie e risorse, anche attraverso fondi di compensazione;
4) è strategico guardare alle politiche abitative come ad una politica pubblica di contrasto alle diseguaglianze e abbandonare un indirizzo socio-assistenziale che caratterizza l'assessorato alle politiche sociali da diversi decenni;
5) l'agenzia deve diventare uno degli assi strategici di un modello sociale dell'abitare rispetto alla struttura della città.
L'enfasi sui rischi della formula dell'Airbnb (ovvero l'estensione di un modello di proprietà immobiliare strutturata intorno agli affitti brevi, quale risposta di mercato all'espansione dell'economia turistica), che riguarda il 7% della proprietà privata immobiliare, va accompagnato ad una analisi puntuale dei cambiamenti strutturali intervenuti nel delicato rapporto tra distribuzione della ricchezza attraverso il lavoro e bisogni abitativi. Senza questa correlazione l'analisi della povertà abitativa e la risposta delle istituzioni e del soggetto pubblico risultano prive della necessaria aderenza ai processi reali. Se continua a prevalere il modello socio-assistenziale, le politiche pubbliche sull'abitare del Comune di Torino risulteranno prive di consistenza e di visibilità.
Torino è una realtà urbana che presenta le peculiarità della complessità metropolitana. Se ne deduce che le politiche abitative devono essere all'altezza di questa complessità. La difesa di una agenzia che presenza limiti e criticità non può essere collocata nell'alveo di un ecumenico pluralismo di opinioni. Restituisce, al contrario, l'immagine di un soggetto pubblico incapace di approdare ad una visione di politica pubblica adatta a questa complessità. La politica è progetto e decisione, è assunzione di responsabilità. “Non decidere” si configura come una scelta; quella di non rappresentare proprio quei bisogni che sono alla base di una sempre più urgente equità sociale.
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